Al contrario degli europei, quando i giovani giordani pensano al futuro non guardano in avanti, ma si voltano indietro perché l’avvenire è alle loro spalle: non lo vedono, possono solo immaginarlo. E’ il passato a trovarsi di fronte perché, essendo cosa ben nota, sta davanti ai loro occhi ogni giorno. Il presente, invece, d’estate si trova ad Aqaba. I mesi caldi della gioventù giordana (l’82% della popolazione) si svolgono nell’unica città bagnata dal mare del Paese. Un piccolo fazzoletto di sabbia rossa di 27 km intorno al quale girano non solo occasioni di divertimento, ma anche la maggior parte degli interessi economici della nazione. Dal 2001 nel golfo di Aqaba, situato nell’insenatura tra la penisola del Sinai e la penisola araba, è stata istituita una free zone commerciale aperta a tutti coloro che vogliono investire sul Mar Rosso. In arabo la parola al aqaba vuol dire “ostacolo”, un significato poco appropriato, dunque, al ruolo attuale della città diventata per la Giordania l’unica buona carta da giocare, oltre la già sfruttata Petra (una delle 7 meraviglie del mondo), per costruire un futuro più ricco e più aperto verso il mondo esterno. Sono previsti nell’area 10 milioni di dollari d’investimenti per costruire alberghi, ville, infrastrutture ricreative e tre lagune artificiali (Ayla Oasis Projet). Alle spalle dei giovani, dunque, potrebbe esserci Aqaba. Per il momento, intanto, la città rappresenta il presente più dinamico della nazione e, in particolare nei mesi estivi, si trasforma in un divertimentificio e sembra il centro del mondo. Anche il Distant Heat, il noto festival di musica elettronica che da 8 anni raduna i nottambuli del Paese nel leggendario deserto del Wadi Rum quest’anno, per volontà dei beduini, ha traslocato palco, consolle, mixer e bar su una collina della città costiera con vista mozzafiato sul golfo da cui è possibile vedere a sud-est le luci dell’Arabia Saudita e a est quelle d’Israele ed Egitto. Per due notti Aqaba è stata il cuore della trasgressione per i giovani che amano divertirsi al modo occidentale: dee-jay stile Ibiza, musica assordante fino all’alba, fiumi di birra Heineken, cocktail, sigarette, minigonne, ballo e sballo. La Giordania non teme l’occidentossicazione, come l’iraniano Jalal al Amad definisce l’occidentalizzazione, anzi ne è affascinata. Non solo Aqaba e Amman, la capitale, sono zeppe di insegne della Coca Cola, Pepsi, Block Buster e Mc Donald’s, ma si possono trovare marchi americani in bella vista anche nei centri più isolati nel deserto. L’Occidente è considerato una sostanza vitale. Tutto ciò che arriva dall’estero per i giordani ha più appeal di qualsiasi realtà interna: aiuta a immaginare il futuro. Allo stesso tempo, però, il passato è sempre lì, davanti agli occhi. La società è conservatrice. La tradizione va rispettata. Il re e il Paese non vanno mai offesi. C’è sempre una linea rossa da non superare. Ma quando si parla di trance provocata dalla musica techno, progressive e house, però, tutto è consentito. Diverso sarebbe il discorso per musiche “più sataniche” come l’hard rock e l’heavy metal. Con la musica elettronica la linea rossa sembra scomparire perché l’estasi provocata dal ritmo martellante di potenti campionatori non è altro che la ripetitività del suono ancestrale del tarab, nozione araba per definire la capacità della musica e della poesia di trasportare in uno stato di trance, verso una via di fuga dalla realtà pesante e distante da sogni e futuro. Anche per i giovani più credenti e religiosi partecipare a un rave come il Distant Heat spesso non del tutto haram (non permesso da Dio), al contrario può essere halel (consentito), purché non si cada nelle tentazioni dell’alcool, delle droghe e del sesso. La maggior parte di loro, come tutti gli islamici, pur ambendo alla modernità, tende ad affidarsi al maktub (destino) e alla teoria dell’in shâ’ Allah (succede quello che Dio vuole) e sceglie come modelli da imitare il re Abd Allāh II ibn Al Hussein e la moglie Rānia al-‘Abd Allāh. In particolare la regina è molto ammirata per la lotta per i diritti delle donne nei Paesi islamici e per l’educazione primaria per tutti (progetto “1Gol”). Rānia è un modello di modernità: oltre a crescere 4 figli, è un avvocato, ha un sto internet e un blog su Twitter, incontra e ascolta la gente, il suo motto è “Yes, I can”, partecipa ai programmi televisivi, ha idee creative e viaggia. Una delle sue mete preferite per le vacanze è l’Italia. Quest’anno ha scelto la Calabria e le isole Stromboli e Vulcano (“Se potessi rinascere vorrei essere italiana”), ma per scrivere i suoi libri, però, preferisce la residenza di Aqaba. Contraddizioni e paradossi, dunque, sono le chiavi d’accesso alla Giordania. Non bisogna stupirsi se ad Aqaba, nella stessa città in cui migliaia di giovani hanno ballato felici sulla musica techno del Distant Heat a fine luglio, due giorni dopo è arrivato un razzo a ricordare che questa parte del mondo è afflitta da guerre, privazioni e sofferenza. Così come non c’è da meravigliarsi se la nazione è abitata dal 60% di rifugiati palestinesi (arrivati nel ’48 e nel ’67) e nel 1994 ha siglato un trattato di pace con Israele. Ha un buon rapporto con gli Stati Uniti e accetta tutte le novità che arrivano dall’esterno, ma allo stesso tempo preserva la tradizione araba e musulmana. Amman in particolare, città di passaggio ricca di servizi, è un grande crocevia di gente e idee e pullula di locali trendy (alcuni anche per gay e lesbiche). Qui tutti parlano un inglese fluente, padroneggiano il linguaggio informatico e allo stesso tempo conoscono a memoria il Corano. I cantanti si esprimono in inglese e usano Facebook per promuoversi, ma non disdegnano la moschea. Molte donne amano i jeans attillati, ma non rinunciano al velo. I computer sono onnipresenti in case e uffici come le immagini del re e della regina. “Se gratti la superficie, scopri che la modernità sfoggiata dai giordani è falsata: mostrano quello che vorrebbero essere, non quello che sono” spiega Ilaria Dei, italiana convertita all’Islam che lavora nel settore turistico a Petra. Per mostrarsi moderni molti giovani hanno addirittura inventato il gergo “anglizi”, un linguaggio che mescola arabo e inglese e dà loro la sensazione di essere più cool e pronti a partecipare alla vita del mondo globalizzato. “Yallah yallah” ripetono a iosa. “Su, andiamo!”. Hanno tutti fretta di crescere e di scoprire cosa c’è alle loro spalle.

Il Reportage, ottobre 2009