Le rivoluzioni arabe hanno spinto molti poeti a trasformare in versi il proprio sentire, anche con grande scavo interiore. Lo dimostra la coralità di voci raccolte nell’antologia “In guerra non mi cercate”
I mutamenti geopolitici e socioculturali che hanno attraversato il mondo arabo nell’ultimo decennio hanno innescato la miccia del cambiamento anche nei linguaggi espressivi, dal cinema alla letteratura, fino alla poesia, arte-spugna che, per sua natura, assorbe il mondo e restituisce in versi l’indicibile.
Stupisce e rallegra notare quanta varietà di forme, registri e stili si trovi nei testi dei poeti arabi contemporanei che con le loro poesie hanno partecipato ai dibattiti politico-culturali accesi all’indomani dello scoppio delle rivolte in Tunisia nel 2010.
Una selezione delle voci poetiche arabe più significative di questa fase storica arriva in Italia grazie alla preziosa antologia “In guerra non mi cercate. Poesia araba delle rivoluzioni e oltre” (Le Monnier università, pp. 216), curata da Oriana Capezio, Elena Chiti, Francesca M. Corrao e Simone Sibilio, che ci permette di scoprire i contenuti e i toni scelti da quarantasei autori divisi per macro-aree geografiche: Mashreq, Egitto, Maghreb, Iraq e Golfo.
Il titolo riprende un verso di una delle voci selezionate, quella del poeta Marwan Ali, nato in Siria in una famiglia curda e oggi residente in Germania. Come Marwan Ali molti altri autori sono stati costretti a lasciare il proprio Paese – tra i quali la siriana Hala Mohammed, l’irachena Dunya Mikhail, l’egiziano Emad Fouad, lo yemenita Mansour Rajih, il libico Khaled Mattawa -, ma i legami con propria la gente e la necessità di usare la poesia per tramandare eventi storici a loro vicini, oltre al proprio vissuto di dolore e di spaesamento, resta un obiettivo prioritario e condiviso.
Oltre una maggiore libertà stilistica rispetto alla poesia araba del passato, una costante delle voci proposte risiede proprio nel bisogno di testimoniare il presente – differente da Paese a Paese -, un’attitudine che fa da trait d’union con i poeti del passato. Nel mondo arabo, infatti, come spiega Oriana Capezio, “la poesia rappresenta il diwan al-‘arab, cioè l’archivio storico della vita di questo popolo che individua nella figura del poeta (sha‘ir) la memoria collettiva. Il poeta arabo compone per la propria gente e in qualche misura il pubblico ne è partecipe, sentendosi in sintonia con i suoi sentimenti”.
Sono tanti gli echi che arrivano dai mondi espressivi di nomi illustri della poesia araba, dal palestinese Mahmoud Darwish (1941-2008) al tunisino Abu l-Qasim al-Shabbi (1909-1934), così come sono tanti anche gli elementi di rottura con la tradizione e gli esempi di rielaborazione e di sperimentazione.
“La più grande sfida per un poeta emergente è conoscere il proprio passato. Quando scrivo, il mio rapporto principale è con la storia della poesia araba” spiega Najwan Darwish, poeta palestinese nato a Gerusalemme, tradotto in una decina di lingua e presente nell’antologia con “Breve racconto sulla chiusura del mare”.
“Ma, il vero problema– aggiunge Najwan Darwish – è che nel breve arco temporale della sua vita un poeta non deve solo conoscere il patrimonio della poesia a cui appartiene, ma scrivere le sue opere e vivere la vita. Così a cinquant’anni siamo ancora bambini: ci meravigliamo e abbiamo tanto da imparare”.
Una tendenza rilevante nei versi dei poeti arabi contemporanei è l’uso preponderante della poesia in prosa (qasīdat al-nathr) nella quale si riscontra, come sottolinea Simone Sibilio, “l’irruzione dell’Io”. “L’espressione poetica araba del nuovo millennio è caratterizzata da uno scavo interiore ricco di pulsioni vitali, così come di dubbio e mistero – evidenzia Sibilio -, da toni più meditativi, contemplativi, soffusi, lontani della versificazione declamatoria o militante degli anni ‘80 e ’90, che era più ritmica, e che pure troviamo nei versi dei poeti tunisini ed egiziani intenti a celebrare le rivoluzioni del 2011”.
Altri rimandi alla tradizione poetica araba ci arrivano, come evidenziato da Elena Chiti, “dall’uso ricorrente di similitudini o metafore che attingono al regno animale”. Sono tanti gli animali che s’incontrano nell’immaginario poetico dei nuovi autori, dal lupo alla gazzella, dalle api al cavallo, fino all’uccello in gabbia che, durante le dittature, ha sempre rappresentato le limitazioni di libertà.
Per ricordare Mohamed Bouazizi, il giovane che, dandosi fuoco in Tunisia, a Sidi Bouzid, nel dicembre del 2010, ha innescato le rivolte che hanno portato alla cacciata del presidente Ben Ali, il tunisino Mohamed Sghaier Ouled Ahmad (1995-2016) sceglie il paragone con la farfalla. In “La poesia della farfalla”, scrive: “Piango e con le lacrime metto i punti sulle lettere della mia poesia / che forse si scioglierà in pianto insieme a me / addolorata, carbonizzata”.
“Un cambiamento di rotta della poesia araba seguito alle rivoluzioni è al centro dei testi selezionati, non solo in senso stilistico” sottolinea Elena Chiti evidenziando il legame tra poesia e vissuto in due poetesse emergenti, ma già riconosciute, Khawla Dunya e Widad Nabi. “La prima – prosegue Chiti – impegnata in Siria come attivista politica, ha cominciato a esprimersi in versi dopo la rivoluzione del 2011. Nel 2012 riesce già a dare voce all’indicibile, parlando della morte dei bambini di Hula, massacrati dalle forze del regime di Bashar al-Asad. La seconda, costretta a lasciare la Siria per rifugiarsi in Germania, parla della lacerazione dell’esilio con la profondità di chi ha addomesticato la sofferenza, e si rivolge alle ‘nostre case nell’assenza’ con un tepore e un dolore che ricordano Neruda”.
Per Najwan Darwish, invece, “è presto parlare di una nuova fase per la poesia araba perché la poesia segue i tempi dell’arte e si sviluppa più lentamente della politica e della cronaca”. Eppure è innegabile che le rivoluzioni abbiano incoraggiato molti poeti a prendere la parola e trasformare in versi il proprio sentire. Le loro voci inoltre, come spiegano i curatori, “possono consentire una lettura privilegiata anche del panorama geopolitico attuale e delle sue profonde lacerazioni”.
Per restituire l’atmosfera di Piazza Tahrir, l’egiziano Amin Haddad da voce addirittura agli alberi, “usciti per le strade del paese”: “Un albero di rose gridava ‘Il popolo vuole’ / e un albero di canfora, affannato, accanto a me, cantava”. Mentre nei versi della siriana Maram al Masri la libertà che ha accarezzato, per un attimo, gli animi di tutti, viene personificata e attraversa indomabile i luoghi della resistenza siriana: “Arriva nuda / in cima alle montagne siriane / nei campi profughi / con i piedi immersi nel fango / le mani consumate dal freddo / e dalla tortura / eppure avanza”.
Left – 28/6/2019