Bambina ebrea perseguitata nella Genova degli Anni ’40, ottima pianista, fotografa di diseredati in giro per il mondo, seguace di Babaji, fondatrice dell’ashram di Cisternino. Lisetta Carmi, mai stanca di cambiare 

La storia di Lisetta Carmi somiglia a quella di un gatto. Elegante, indipendente, libera, coraggiosa e avventurosa, questa donna nata a Genova nel ‘24 da una famiglia borghese di origine ebraica sembra essere morta e rinata più volte. Sin da bambina, come un gatto ha imparato a leccarsi le ferite da sola e a cercare una nuova strada per risorgere. Oggi per molti il suo nome è legato alla figura del maestro indiano Babaji che nel ‘76 l’ha “chiamata” a sé chiedendole di costruire un Ashram in Italia per diffondere il suo messaggio, ma la storia di Lisetta è molto più lunga e formata da diverse esistenze. 

“Ho vissuto quattro vite e ora sto trascorrendo la quinta” dice questa piccola donna dallo sguardo felino che da oltre trent’anni abita a Cisternino, tra i bianchi trulli pugliesi della Valle d’Itria dove nel ‘79 ha fondato l’Ashram “Bhole Baba” dedicato al suo maestro. Ma anche questo capitolo mistico del suo percorso è già archiviato nelle “vite passate”.

Oggi Lisetta non vive più nel centro spirituale da lei costruito, ma in una accogliente casetta nel centro cittadino dove trascorre le giornate leggendo libri sul pensiero di Confucio e del Tao, dipingendo quadri utilizzando la calligrafia cinese antica e moderna e organizzando mostre di foto che porta in giro per l’Italia. Per lei “le cose vanno fatte e lasciate”. 

“Un giorno Babaji mi disse: “Tu vivrai cinque vite” ed è quello che sto facendo: ora vivo la mia quinta esistenza, quella della libertà assoluta, della totale apertura verso gli altri e del silenzio della casa”. Il filo rosso della storia di Lisetta Carmi è la grande propensione al cambiamento e la portentosa elasticità nel mutare pelle. Come un felino, questa donna dagli occhi trasparenti, alta un metro e cinquanta e abile nel capire il momento giusto per graffiare e quello per fare le fusa, ha saltato tanti ostacoli con disinvoltura e decisione, senza fermarsi mai. E’ stata pianista, insegnante di musica, viaggiatrice, fotoreporter, autrice di libri, testimone di varie trasformazioni dell’Italia del ‘900, predicatrice di una filosofia di vita lontana dalla sua cultura di appartenenza, ma soprattutto una persona che ha rifiutato il guinzaglio non accettando il ruolo di donna assegnatole dalla società e di correre libera per il mondo come un gatto randagio. Lisetta ha vissuto l’infanzia nella Genova degli Anni ‘30 in via Sturla insieme a due fratelli maggiori in una famiglia di origine ebraica molto protettiva, esigente e severa. 

Le prime ferite da leccare sono state l’espulsione delle scuole pubbliche in seguito alle leggi razziali del ‘38, la fuga in Svizzera nel ’43 per evitare di finire nei campi di concentramento, l’immensa solitudine di un’adolescenza da “emarginata”, la faticosa ricerca di un’identità e il grande peso dell’autoritarismo di genitori che le imponevano una rigida disciplina. A tutto questo Lisetta ha risposto sentendosi e comportandosi da “ribelle”. Ha partecipato alla vita familiare con rispetto, ma non ha mai avuto paura di dire che era comunista, ha studiato con dedizione il pianoforte, ma è scesa in piazza per protestare contro il fascismo. Non si è mai sentita una ragazza come le altre. 

“Ho sempre avuto difficoltà ad accettare la mia condizione femminile – spiega – perché non riuscivo a scinderla dal ruolo di subordinazione in cui vedevo che la donna era costretta dalla società”. Così Lisetta “la ribelle”, dopo anni di studio solitario e disciplinato della musica con il maestro Alfredo They e un’intensa attività concertistica, lascia tutto e fa un salto gioioso nella sua seconda vita, quella della fotografia. “”Non andare in piazza a manifestare contro Giorgio Almirante (esponente del MSI), ti rovini le mani. E se ti fai male alle mani non puoi più suonare. Ti ricordo che sei una pianista”, mi disse il mio maestro – racconta Lisetta – E io risposi: “Se le mie mani sono più importanti dell’umanità allora lascio il pianoforte”. E così è stato. Sono scesa in piazza a fianco dei portuali in seguito alla svolta di destra del governo con Fernando Tambroni e ho smesso di suonare”. Dal quel giorno del ‘60 la signorina Carmi esce dalla dimensione ovattata e solitaria dell’essere musicista ed entra nel mondo degli altri. Parte, incontra persone e scatta fotografie. Va in Israele, Venezuela, Colombia, Messico, Afghanistan, India, Pakistan, Parigi, Marocco e il suo sguardo si poggia sugli umili e i poveri, “su chi non ha voce, chi è schiacciato dal potere”. 

“Non ho mai cercato soggetti, mi è venuta incontro la vita delle persone – spiega Lisetta – Scattavo solo quando sentivo una vibrazione tra la mia anima e quella del soggetto che avevo di fronte. Ho incontrato tanta gioia negli occhi dei poveri e tanta tristezza in quella dei ricchi. I poveri sono fortunati perché vivono con il necessario e chi ha solo il necessario non ha la paura di perderlo”. Così l’opera fotografica di questa piccola donna felina diventa lo specchio del suo percorso esistenziale. In particolare il reportage realizzato tra il ’65 e il ‘72 sui travestiti e i transessuali di Genova dà una svolta alla sua conoscenza interiore (pubblica anche il libro “I travestiti”, edizione Essedi). 

“Insieme ai travestiti ho imparato a vivere senza ruolo – dice – ho accettato totalmente di essere una donna, ma ho rifiutato il ruolo di donna imposto dalla società. E’ stata la domanda dello psichiatra Sergio Piro a farmi capire l’importante di questo lavoro: “Ma lei come si identifica con loro, come uomo o come donna?” Io risposi: “Ne come uomo, né come donna, esistono solo gli essere umani”, e in quel momento cominciai a capire a cosa mi ero stavo ribellando”. 

Lisetta scopre la fotografia in Puglia, la terra che pochi anni dopo diventerà la sua nuova casa. “Seguii l’amico etno-musicologo Leo Levi che all’epoca studiava i canti di una comunità ebraica a San Nicandro Garganico – racconta – Consapevole dalla bellezza del paesaggio che avrei visitato comprai una macchina fotografica, un’Agfa Silet, ed è lì che cominciai a scattare. I reportage (in parte pubblicati sulla rivista “Tempi Moderni” diretta da Fabrizio Onofri), sulla vita dei portuali di Genova, sulla borghesia genovese vista attraverso i monumenti sulle tombe nel cimitero di Staglieno, la sequenza del parto ripresa nell’ospedale Galliera e i viaggi in Israele sono stati lavori centrali del mio percorso”. 

Per il fotografo Uliano Lucas, Lisetta Carmi ha avuto un ruolo centrale quanto insolito e sfuggente nella storia della fotografia italiana. Centrale perchè a riguardarle oggi, le sue immagini si scoprono tutte inserite in quel momento di rottura, di svolta nella storia della cultura e della società italiana rappresentato dai movimenti antiautoritari e di sinistra degli anni ‘60, dall’imporsi della società di massa e dal nascere di un nuovo modo di raccontare e interpretare la realtà. Insolito e sfuggente perchè, pur incarnando a pieno e interpretando con grande forza espressiva questo momento, Carmi sembra viverne al contempo ai margini, in una sua personalissima storia che la porta fuori dai circuiti, le tematiche e le dinamiche del foto-giornalismo di allora”. 

Nel ’76, esattamente dieci anni prima dei sedici scatti a Ezra Pound ripresi a Rapallo che le valsero il Premio Niepce (raccolti nel libro “L’ombra di un poeta”, edizioni ObarraO), per Lisetta la fotografia passa in secondo piano e in India comincia la sua terza vita. Incontra Babaji e si stacca dall’immagine di se di ragazza ribelle. 

“Fui chiamata da lui attraverso una devota che mi disse di andare in una capanna sotto l’Himalaya – spiega – E lì che incontrai un bambino che mi consegnò un biglietto con su scritto: “Ti aspetto il 12 marzo a Jaipur”. Era l’invito di Babaji a seguirlo. Partii immediatamente. Arrivai a Jaipur, guardai Babaji e lo riconobbi come il mio guru da sempre, da infinite vite passate. Mi diede il nome spirituale di Janki Rani e ogni mattina mi faceva dei segni gialli sulla fronte. Era il chandan. Ricordo che l’ultimo giorno della mia permanenza in India mi fece il chandan addirittura sugli occhi, coprendoli totalmente di polvere gialla. Allora gli chiesi: “Che significa questo segno?” e lui mi disse: “Significa che vedrai la luce divina” e poi, quando stavo per partire, aggiunse: “Vai pure, io verrò con te, sarò sempre con te”. 

Fino all’ingresso nella quarta vita, quella del ritorno alla musica e del re-incontro con il suo ex allievo di pianoforte Paolo Ferrari, oggi presidente dell’Associazione “Centro Studi Assenza” di Milano che si dedica ad attività artistiche, psichiatriche, filosofiche e musicali, Lisetta investe tutti i suoi soldi nell’Ashram perché, dice, “il denaro è pura energia divina, va speso per gli altri”. “Tornata a Cisternino – racconta – acquistai un terreno, cominciai a fare dei lavori, riunii intorno a me un po’ di persone tra cui la tedesca Malti e la milanese Faki Ruli e, nel ’79, nacque l’Ashram, un centro spirituale non religioso aperto a persone di tutti i credi dove non si fuma, non si beve alcol e si mangia vegetariano”. 

Con il passar degli anni la struttura si è ingrandita. Inizialmente c’era solo un trullo, oggi ci sono tre gruppi di trulli e altre fabbricati a forma di lamie, costruzione tipica della Valle d’Itria, e intorno si è formata una sorta di città, chiamata “Bhole Baba City”, dove abitano i fedeli che hanno scelto di vivere in Valle d’Itria. Nel ‘86 è stato eretto il grande Tempio, ricostruzione identica di quello di Hairakhan, località ai piedi del monte Kailash nel Kumaon sulle rive del fiume Gotama Ganga dove viveva il maestro, e nel ‘90 il Dhuni (fuoco sacro), struttura dove arde perennemente un fuoco e simboleggia “un ponte tra Cielo e Terra, un luogo di meditazione e unione”, dove ogni giorno, all’alba e al tramonto, si svolge la “puja”, una cerimonia di offerta della propria conoscenza e la propria luce al Dio con canti devozionali in sanscrito. 

“Quello che mi colpì di Babaji – aggiunge Lisetta – fu la semplicità con cui trasformava il cuore delle persone. “Il lavoro è adorazione”, diceva, “Servire l’umanità è servire Dio”. Non è stato facile avviare l’attività dell’Ashram, ma Cisternino era il posto giusto: una terra magica e sacra, contraddistinta della presenza delle stesse piante che si trovano in Israele e Palestina, ulivi, mandorli, querce, fichi”. Lisetta recita ancora ogni giorno il mantra che le ha insegnato da Babaji nel ‘76: “Om Namah Shiva”. “Devi ripeterlo 25 ore al giorno, è più potente di una bomba” mi disse intendendo di pronunciarlo più volte possibile. 

“Om Namah Shiva” è il cuore dell’Arati, il rito yogico di adorazione celebrato da tutti i devoti di Babaji. Ogni cerimonia esige una lunga preparazione e l’effetto scenico è molto forte, ma la prima cosa che colpisce entrando nell’Ashram è l’assenza di porte, cancelli e serrature. Non esistono chiusure e delimitazioni tra gli spazi di questo centro spirituale. Sin dall’ingresso si avverte un grande senso di apertura che viene poi amplificato girovagando per le varie sale: su ogni parete co-abitano icone di Gesù Cristo, Buddha, Shiva, dei sufi, Padre Pio, la Madonna di Loreto e naturalmente Babaji. “Il messaggio del nostro maestro abbraccia tutte le confessioni religiose: indù, mussulmane, cristiane, ebree, sikh, parsi, animiste, compreso l’ateismo – sottolinea Lisetta – Qui non ci sono barriere religiose. Le porte simboliche dell’Ashram sono sempre aperte a tutti perché, secondo l’idea di Babaji “Dio è Uno ed è come l’oceano in cui convergono tutti i fiumi che rappresentano tutte le religioni””. 

Pur essendosi appropriati dei rituali induisti, gli adepti di Babaji accolgono nel centro persone di tutte le credenze religiose. I profumi, gli abiti e i colori evocano l’India; le numerose celebrazioni che scandiscono l’anno si rifanno alle festività del suo calendario, dalla Gurupurmina (festa del Guru) al compleanno di Krishna e di Ganesh Chathurti (figlio di Shiva e di Parvati), ma non sono disdegnate ricorrenze cristiane come il Natale e la Pasqua. Ogni settimana l’Ashram viene affollato da persone provenienti da tutto il mondo. I seguaci di Babaji, infatti, formano un popolo variopinto e multi-etnico unito dalla fede per gli insegnamenti del maestro, l’apertura verso l’altro e l’entusiasmo nel condividere le diversità religiose. 

“Il messaggio di Babaji va oltre il concetto di tolleranza – spiega Lisetta – Lui non ci chiede di tollerare l’altro, ma di capire che esiste qualcosa di più grande al di là di ogni religione, qualcosa che non va cercata nelle dottrine, ma nell’essere umano, nella coscienza di sé. Il concetto-base del suo messaggio è il “Sanatana Dharma”: la legge eterna e universale che si riferisce alla meditazione e la preghiera abbinate al lavoro comunitario”. Fino a una decina d’anni fa, la giornata tipica di Lisetta è stata scandita dal lavoro nell’Ashram. “Ci si divideva i compiti con gli altri residenti – spiega – dalla cucina alle pulizie, dall’orticultura al giardinaggio, dalla gestione del negozio a quella dell’ufficio fino all’organizzazione di seminari e altre attività culturali, perché “l’ordine e la stabilità aiutano a raggiungere l’autocoscienza. La pratica di Babaji è incentrata sulla devozione, il Bahkti Yoga, e sulla capacità di agire e lavorare nella realtà quotidiana, senza attaccamenti alle cose, offrendo le proprie azioni al Divino, il Karma Yoga”. Lisetta non ha avuto figli, ma ha dedicato però molto del suo tempo al recupero di ragazzi tossicodipendenti e all’aiuto di bambini bisognosi. 

“Erano per me figli spirituali – dice – e non ho nessun rimpianto per non averli partoriti io”. Tutte le attività di Lisetta sono state dedicate agli altri, ma in fondo le servivano per capire se stessa. “Ho sofferto tanto nella mia vita ed è per questo che sono stata sempre dalla parte di chi soffre – racconta – Quando sotto il fascismo sono stata espulsa dalle scuole pubbliche avevo 14 anni ed è stato tremendo. Ho perso i fratelli, ho perso i compagni, ho perso tutto ed è cominciata una solitudine totale e allora ho dovuto capire. Perché fino a quando non mi hanno espulsa, sì sapevo che ero ebrea, ma non essendo religiosa, non andavo alle lezioni di religione cattolica, e la mia consapevolezza finiva lì. Nel momento in cui ti dicono: “tu non puoi andare a scuola perché sei ebreo, non puoi fare questo perché sei ebreo, devi scappare dall’Italia perché sei ebreo se no i tedeschi ti ammazzano, allora devi capire chi sei. Ed è quello che ho fatto. Ho vissuto sentendomi diversa dagli altri e connessa a un popolo che ha sofferto e che ha lottato per la libertà. Ho provato a capire chi sono cercando la libertà e oggi l’ho trovata, nella mia quinta vita”. 

Diario – agosto 2007