Il misterioso barrio Once, il quartiere jewish di Buenos Aires dove la memoria si scrive sempre con lo stesso numero
Esiste un quartiere che si chiama “11 settembre” ma non è a New York. Si trova a Buenos Aires e tutti lo conoscono come “Once” anche se questo nome non comprare su nessuna guida turistica, su nessuna cartina geografica, né tra gli annunci dei giornali o tra quelli delle agenzie immobiliari. “Once” potrebbe essere raccontato come un quartiere fantasma, dai contorni invisibili e il volto oscuro e invece la sua identità è sviluppata, il suo spazio è delineato e la sua storia è densa di eventi, continue evoluzioni e intrecci di culture che lo rendono una delle zone più dinamiche della Buenos Aires di oggi. “Once” è l’abbreviazione di “Once de septiembre”, nome ufficializzato da un decreto siglato dal Governatore Pastor Obligado nel 1853 per denominare principalmente la Stazione del quartiere, una delle più grandi della città insieme a Retiro e Costitucion che affaccia su Plaza Miserere, e il mercato che sorgeva nella stessa piazza. La data si riferisce alla giorno in cui, nel 1852, il comandante Valentín Alsina guidò la rivoluzione contro il tiranno Justo José de Urquiza per ottenere la secessione di Buenos Aires. Solo successivamente – e non esiste una data precisa – questo nome è stato preso in prestito dagli abitanti di Buenos Aires ed è entrato nel gergo comune per denominare l’intera area che sulle mappe della città è indicata come “Balvanera”, in onore della Madonna venerata in Spagna nella regione della Rjoca. Pochi nel quartiere oggi conoscono la sua origine. La maggior parte delle persone non se lo è neanche mai chiesto. Molti lo associano al “Dia del maestro”, il giorno dell’insegnante, celebrazione ufficializzata dalla Conferenza Interamericana di Educazione tenutasi a Panama nel 1943 che decise di dedicare una giornata al docente Domingo Faustino Sarmiento, scomparso l’11 settembre del 1888, che fu Presidente dell’Argentina dal 12 ottobre 1868 al 12 ottobre 1874. Con il passar del tempo – anche in questo caso non si conosce la data esatta – il nome del quartiere, per una questione semplificativa, ha perso strada facendo il mese (septiembre) ed è diventato per tutti semplicemente “Once”. Una semplificazione che può apparire fortunata vista la connotazione negativa e apocalittica assunta da questa data ricorrente nella storia contemporanea nell’immaginario collettivo – in particolare dopo la tragedia delle Torri Gemelle del 2001 – ma che intriga ancor più e spinge a curiosare nel quartiere per cercare le tracce di un mistero nascosto, di una storia nella storia, di una versione moderna del Santo Graal che contiene altre verità. Il nome “Once” fa venire subito voglia di sbirciare nei libri di Cabalà, la sapienza mistica e spirituale contenuta nella Bibbia ebraica che, attraverso codici, simmetrie e parallelismi, scova il messaggio segreto delle combinazioni numeriche. “Once” significa “Undici”, una cifra ripetuta. Secondo la numerologia è il primo Numero Maestro, capace di “dominare sull’intelligenza dell’uomo e di governarla”. E’, infatti, simbolo di forza spirituale. Appartiene alle grandi menti o alle grandi personalità, sia negli aspetti positivi che negativi. E’ il “grande bene” o il “grande male”. Rappresenta la conoscenza e l’intuizione, ma anche l’imposizione e l’obbligo. E’ simboleggiato dalla stella a undici punte, mentre nei Tarocchi è la carta della giustizia. Anche la somma della data “11 settembre” porta sempre a “undici” (9+1+1 fa 11) che per gli antichi ebrei era il numero di Lilith, quella forza femminile serpentina che spinse Eva alla disobbedienza. Non è un caso, forse, che “Once” sia abitato prevalentemente da ebrei. La prima ondata di immigrati è approdata in città nel 1860 da Russia, Polonia, Romania, Austria, Lituania, Cecoslovacchia, Ucraina, Albania. Già nel 1906 il 56% degli ebrei arrivati in Argentina viveva a “Once” e si occupava di commercio. Oggi gli ebrei di Buenos Aires sono circa 200 mila e hanno dato vita a un barrio-mercato vivace e dinamico molto diverso dai “pogrom” di altre città. L’atmosfera che si respira non è quella del ghetto chiuso, soffocante e isolato dal resto della metropoli. L’area ebraica, affollata anche di centinaia di coreani, peruviani e boliviani, si sviluppa intorno a quattro arterie principali che formano un quadrato. E’ ricchissima di botteghe, ristoranti e attività commerciali. Il sacro e il profano convivono uno di fianco all’altro. Simboli e lingue si mescolano creando un melting-pot più familiare e intimo rispetto a quello degli Stati Uniti. Appare quasi come uno spazio poetico caratterizzato da un insolito miscuglio di tragedia e magia, concretezza e superstizione, affari e preghiera. Passeggiare tra le sue “quadras” variopinte fa sentire in una “Rayuela”, il “gioco del mondo” inventato dallo scrittore argentino Julio Cortazar: cercare disperatamente qualcosa senza sapere che cosa in un labirinto scomponibile. Chissà quante volte Cortazar ha cercato i misteri nascosti di “Once” girovagando per le sue decadenti quadras? Chissà quante volte Jorge Luis Borges, già convinto che Buenos Aires è “una città che non esiste ma che si può immaginare”, ha provato a mettere insieme i frammenti dell’identità del quartiere trascorrendo ore nei bar a leggere, scrivere, parlare con le persone in transito? Tra gli scrittori dell’ultima generazione il nome che viene subito associato a quest’area è quello di Marcello Birmajer, classe 66, autore del libro “Once”, nonché della sceneggiatura del film dedicato al quartiere, “El abrazo partido” di Daniel Burman (vincitore dell’Orso d’argento al festival di Berlino nel 2004 e del premio per la sceneggiatura al festival di Rotterdam 2004). Il primo enigma che lo scrittore vuole svelare naturalmente è quello del nome e la sua conclusione lo porta ad affermare che a Once “ci sarà dato l’Undicesimo Comandamento: non una nuova proibizione, ma il modo per usare gli altri dieci, cosi finalmente potremmo metterli in pratica”. “Entusiasmato da questa possibilità – scrive Birmajer nel suo libro – non sono mai andato via dal mio quartiere. Ho sperato, e spero ancora, che questo Undicesimo Comandamento sarà dato a un terreno incolto che non esiste più e che il mendicante cieco di un occhio che mi metteva paura quando era un bambino, lo leggerà a tutti noi con il suo occhio mancante”. Affascinato dalle favole e dal senso del magico Birmajer è lo scrittore giusto per aprirci altre porte su “Once”. Gli spunti dati dal suo libro fanno sentire come Pollicino che segue le tracce nel bosco per trovare la strada. Gli indizi sono dati dal numero “undici”. Il percorso è a zig zag e ci porta subito a contatto con le chiese cattoliche e le sinagoghe ebraiche che vivono fianco a fianco. Lo sguardo si poggia sugli striscioni da stadio esposti sulla facciata della Chiesa di Nostra Signora di Balvanera in onore di Sant’Expedito, il “Santo dell’undicesima ora”, colui che risolve le emergenze, che concede i miracoli all’ultimo minuto. Il 19 di ogni mese la chiesa si riempie di pellegrini e devoti trasformandosi in un Fast-Food delle Grazie. “La venerazione per Sant’Expedito (capo della Legione Romana martirizzato nel IV secolo sotto Diocleziano molto noto in Brasile per essere stato inserito nelle vicende di alcune telenovelas) raggiunge numeri esorbitanti – spiega il parroco, Padre Fabrizio Maranzana – Da quando c’è stata la crisi economica in Argentina nel 2001 arrivano qui anche 60 mila persone in una giornata per chiedere un miracolo urgente che, secondo i racconti della gente, viene esaudito in un paio di giorni”. Padre Fabrizio è qui da dieci anni e ha vissuto in prima persona il fenomeno. “Una devota un giorno donò alla chiesa una statuetta di Sant’Expedito e da quel momento è diventato popolare nel quartiere tanto da modificare il nome stesso della chiesa che oggi è famosa con il nome del santo e non più con quello di Nostra Signora di Balvanera – racconta il parroco – La venerazione è cresciuta in maniera spontanea e ha avuto il suo picco dopo la crisi. Il 17 gennaio del 2004 poi, per caso, mi è capitato di trovare un’altra statua di Sant’Expedito nascosta al terzo piano dell’altare. Fu un’emozione incredibile. Oggi è quella che veneriamo”. Colpisce che la chiesa, così come il quartiere stesso, ha un doppio nome: uno ufficiale che nessuno ricorda e uno ufficioso che è sulla bocca di tutti. Il numero “undici” e la sua dualità non va via dalla mente e, continuando a seguire le tracce di questo numero misterioso sui muri, le insegne dei negozi e degli hotel ci si trova nel cuore del quartiere, abitato prevalentemente da ebrei ortodossi. Sullo sfondo la musica della Hypnofon Orchestra (Orchestra Incorrecta Argentina), una band formata da Alejandro Terán insieme a altri undici musicisti di diverse nazionalità. Ogni strada a “Once” è specializzata nella vendita di un prodotto: Lavalle è la strada dei tessuti, Paso la strada della biancheria intima, Azquenaga la strada degli abiti da sposa, Uriburu la strada delle perline, i bottoni, le decorazioni, Pasteur la strada dei profumi, Sarmiento la strada dell’elettronica. “Once” non comunica un senso di “recinto”, ma offre accoglienza e dolcezza. L’identità ebraica è subito entrata in contatto con l’anima argentina. Oggi convivono pacificamente la salvezza facile e spettacolare dalla magia ambita dagli argentini e il lavoro costante e disciplinato tipico degli ebrei. Per le quadras del quartiere si avverte lo stesso dualismo che si incontra tra i personaggi dello scrittore Robert Arlt, impiegati o avventurieri, tristi e incantati, umiliati e sedotti e molti intellettuali studiano l’identità giudaico-argentina. “Come tutti gli ebrei manteniamo un forte senso di comunità – racconta Luis, venditore di tessuti e abiti da sposa – ma siamo anche molto aperti verso le nuove immigrazioni arrivate nel quartiere, dai coreani ai peruviani e boliviani. Ognuno fa la sua vita seguendo le leggi di una tolleranza collaborativa. Once è un quartiere molto aperto all’altro perché, pur non essendo un luogo turistico, è un grande centro commerciale frequentato da persone che arrivano da tutta la Nazione. Non nego però che conviviamo anche con la paura di azioni antisemite”. Dopo l’attentato del 17 marzo del 1992 all’Ambasciata Israeliana di Buenos Aires, in cui furono uccisi 29 diplomatici e impiegati, e l’esplosione avvenuta il 18 luglio del 1994 nell’edificio dell’AMIA (Associazione Israelitica Argentina di Mutuo Soccorso) a Once – in cui avevano sede gli uffici di molte organizzazioni ebraiche – quando morirono 85 persone, compresi alcuni degli esponenti più in vista della Comunità, sono stati potenziati i sistemi di allarme e il numero degli agenti di sicurezza davanti a edifici e sinagoghe. Ma nonostante la presenza costante di questi poliziotti attenti a non far scattare neanche una fotografia dai passanti curiosi e il controllo rigidissimo all’ingresso di ogni edificio, anche dei club ricreativi, l’atteggiamento della gente rimane socievole e cordiale. La popolazione di “Once” aumenta di anno in anno. Pochi sono andati via dopo la grave crisi del 2001 e molti altri hanno scelto di traslocarvi nell’ultimo anno. Segno che il quartiere è in rinascita e impone quotidianamente la sua identità e la sua storia. Passeggiando su Calle Pasteur, la parete nera che riporta in bianco i nomi delle vittime dell’attentato all’AMIA è un esplicito segnale di rispetto della Memoria. La stessa sensazione si avverte arrivando in Piazza Miserere di fronte l’istallazione con le scarpette bruciate appese ai fili, il piccolo cimitero e la parete commemorativa con i nomi dei 194 ragazzi morti il 31 dicembre 2004 nell’incendio della discoteca “Cromagnon Repubblic”, la notte in cui circa duemila giovani festeggiavano la fine dell’anno scolastico al ritmo della musica del gruppo rock Los Callejeros. Il barrio che non trova spazio su nessuna mappa in questo modo non nega la sua parte più oscura e dà continui riferimenti a chi sceglie di entrare nel labirinto del “gioco del mondo” di Cortazar per provare a mettere insieme i frammenti e capirne l’essenza più profonda. Pur essendo uno dei quartieri meno argentini di Buenos Aires grazie alla sua sempre crescente multietnicità, “Once” ingloba anche un aspetto della cultura tipicamente portena: il gusto di gioire delle proprie tragedie. L’orgoglio del dramma è evidente in molti atteggiamenti, ma la sorpresa più grande è scoprire su Calle Uriburu, al civico 763, un bizzarro Museo che, da un anno, ha messo in mostra con entusiasmo triste la storia del Debito Estero. “L’origine è un progetto universitario partito nel 2000, prima della crisi, che negli anni è cresciuto e ci ha permesso di dar vita al Museo della disastrosa storia economica dell’Argentina – spiega Luis Jorge Ballastero, dipendente del Museo – Foto, video, documenti e istallazioni create ad hoc mostrano la nascita del debito e la sua crescita esponenziale, fase dopo fase, fino ai giorni nostri”. “E’ un paradosso, un ennesimo paradosso” direbbe la scrittrice Maria Seoane perché, come recita il titolo del suo libro pubblicato in Italia da Laterza, “l’Argentina è il Paese dei paradossi”.
E’ un Paese che ama l’“amargura”, l’amarezza, come spiega Ezequiel Martinez Estrada nel suo libro “La cabeza di Goliat”. E non solo gli argentini provano piacere nel sentirsi a contatto con la catastrofe e la decomposizione, ma sembra che amino mostrala, urlarla, cantarla al mondo. Anche il tango, il ritmo che contraddistingue la cultura portena dalla fine dell’800, contiene lo stesso gusto per la lacrima in vetrina, la nostalgia per quello che non c’è e la fierezza del peso della perdita, della sconfitta. Tra le quadras di Once si avvertono anche questi sentimenti. La storia del barrio, infatti, è strettamente legata a quella del tango perché i maggior interpreti e parolieri del secolo scorso hanno composto e cantato nelle sue piazze, nei suoi bar, nei suoi cortili. “Once” è il quartiere dove ha vissuto la sua infanzia Carlos Gardel, figura mitologica del tango, venerato e ricordato dai suoi abitanti con una statua, una strada e una stazione della metro a lui dedicate nei pressi dell’Abasto, altro punto centrale del quartiere, ex mercato ortofrutticolo trasformato oggi in grande centro commerciale. Le tracce che portano al tango e alle sue lacrimevoli storie di malinconia sono tante e non c’è solo Gardel nella pagine di questa parte di storia. Ci sono anche Julio De Caro, Jose Razzano, Alberto Castello, che hanno trascorso parte della loro vita a Once, e c’è Tanghito che ha composto l’evergreen “La balsa” nell’albergo e ristorante “La Perla” su Plaza Miserere. Chissà in quale angolo del quartiere è nascosto l’Undicesimo Comandamento immaginato da Birmajer? Chissà sotto quale faccia è celato l’uomo con un occhio solo che ci svelerà il segreto?
IL FOGLIO – 19/5/2007