Quello che mi ha colpito di più dell’incontro con l’attivista e giornalista irachena Suha Oda è stata la sua voglia di farmi sapere che lei non è diversa da me.
Pur essendo nata a Mosul in una società conservatrice, cresciuta in una famiglia musulmana tradizionalista che le ha imposto il velo e tanti limiti e vissuta in un contesto in cui, anche prima dell’arrivo dell’Isis che preferisce chiamare con il nome arabo Daesh, le donne avevano troppi meno diritti rispetto agli uomini, lei si sente uguale alle europee e a tutte le donne del mondo.
“Come ti immaginavi che fossi?” mi ha chiesto, a un certo punto, fissandomi con i suoi occhi grandi e curiosi, preoccupata che io mi aspettassi di incontrare una donna velata, triste, timida e inesperta della vita.
Suha non è affatto triste, timida e sprovveduta. È forte, sorridente e decisa e da un anno non porta più il velo. Da quando è stata costretta a lasciare la sua città occupata da Daesh che, ha specificato, “è un’organizzazione, non uno Stato”.
Ora Suha vive a Sulaymaniyah, nella regione autonoma curda nel Nord dell’Iraq, mentre la sua famiglia è rimasta a Mosul. Si è distaccata da una visione religiosa della vita, non fa più la preghiera e lavora con sempre maggiore determinazione.
Ha 29 anni e da quando, cinque anni fa, ha cominciato a fare la giornalista, a scrivere, a viaggiare, a guadagnare soldi, ha deciso che non si sposerà trasgredendo del tutto il modello materno della donna casa e famiglia.
Apparentemente le nostre vite non hanno niente in comune, eppure ci scopriamo uguali. Uguali nell’istinto alla notizia, nel desiderio di partecipazione al mondo, nel bisogno di fare domande per capirci di più, nel piacere di specchiarsi l’una nell’altra e nella necessità di essere libere e immaginare un futuro migliore.
“Una giornalista a Mosul oggi rischia la vita, ma non sarà così per sempre” mi ha detto d’un tratto. Suha, infatti, ha rischiato di essere uccisa quando, dopo la caduta di Mosul, non ha smesso di raccontare su Twitter e Facebook quello che accadeva intorno.
“Daesh ha violato ogni diritto umano, a cominciare dal diritto alla vita. Da settembre sono state condannate a morte almeno 30 donne, avvocatesse e parlamentari. Una professoressa universitaria è stata decapitata di fronte ai figli. Sono state scoperte nove fosse comuni vicino Mosul con cadaveri di donne, uomini e bambini. Centinaia di agenti della polizia e dell’esercito sono stati uccisi, così come attivisti e giornalisti. La maggior parte delle esecuzioni è avvenuta pubblicamente, in altri casi di fronte a una telecamera il cui video era destinato ai social network”.
Prima dell’arrivo di Deash, Suha lavorava per i principali media iracheni, oggi manda notizie soprattutto all’agenzia tedesca DW.
Nonostante l’incubo dell’avanzata di Daesh in Iraq la gente prova a fare una vita normale, come Suha. Come quando stava andando al suo ufficio e, sulla strada per arrivarci, ha incontrato tre esplosioni di bombe. “Non sono tornata indietro – ha raccontato -. Ho continuato dritto e sono arrivata a lavoro”.
Per chi vive a Mosul non è facile trovare una normalità. “La città è isolata – ha spiegato Suha -. Strade e ponti sono interrotti. Non ci sono servizi. Non c’è sicurezza. Si muore per mancanza di cure. La popolazione è ostaggio di Deash e le donne più di tutti conducono una non-vita. Non possono uscire tranne per occuparsi dei bambini e di questioni ginecologiche, non possono viaggiare e prendere un taxi da sole, non possono lavorare, scegliere un marito. Non possono neanche indossare i colori. Sono obbligate a vestirsi di nero dalla testa ai piedi. È cambiato tutto dalla sera alla mattina”.
“Io sono una figlia di Mosul. Questa bruttezza non ci appartiene. Non ci rappresenta” ha sottolineato dopo una pausa in cui, forse, avrà pensato alla Mosul della sua infanzia, il luogo dove è nata la civiltà. Una città piena di artisti, poeti, musicisti con 7 mila anni di storia alle spalle e tanta effervescenza.
Si fatica oggi a trovare sul web un reportage che raffiguri la Mosul di un tempo, terza città dell’Iraq dopo Bagdad e Bassora, capoluogo del governatorato di Ninawa che fino a un anno fa era abitata da cristiani e musulmani, curdi e arabi, serenamente insieme. Si fatica perché Deash ha imposto il suo orrore anche nelle immagini on line. Per questo Suha ci tiene maggiormente a non far dimenticare la sua antichissima città, la biblioteca, il museo, l’eleganza del suo popolo e a far conoscere la sua storia e l’opera dei suoi talenti, scrittori, pittori, autori teatrali.
Ho incontrato Suha grazie a una missione organizzata in Italia dall’associazione “Un ponte per…” per far sapere agli italiani quello che succede nei territori occupati da Daesh. Suha non si è stancata di raccontare le atrocità di cui è stata testimone e soprattutto di ribadire che le donne irachene sognano un futuro di libertà, di amore e di bellezza, come tutte le donne del mondo.
“Già prima dell’avvento di Deash noi donne giornaliste eravamo impegnate a conquistare più rispetto e diritti. Abbiamo fondato l’Iraqi Women Journalist Forum e, insieme ad altre realtà, con la campagna Shaharazad siamo riuscite a bloccare la proposta di legge Al Jafaari che avrebbe permesso agli uomini il matrimonio con bambine di 9 anni o anche più giovani – ha raccontato -. Ho assistito a troppa sofferenza tra le donne della mia famiglia, costrette a sposare uomini scelti dai genitori, in età troppo giovane, solo per convenzione sociale. È una battaglia ancora aperta in tutto il paese”. “E cosa mi dici delle jihadiste del sesso”? le ho chiesto.
“Non esistono. È una notizia inventata” ha risposto serafica aggiungendo che “la maggior parte delle donne è vittima sessuale dei jihadisti. Soprattutto le donne delle minoranze non musulmane, come le yazide, perché fare loro violenza è più giustificabile agli occhi del mondo. In Iraq ci sono stati anche due casi di Aids”.
“È gusto che sappiate – ha spiegato Suha, con tono serio – che le menti di Daesh non sono barbari del deserto bravi soli a tagliar teste o gole, ma sono cervelli che sanno gestire soldi, armi e media. Anche i media occidentali sono caduti nella trappola e hanno contribuito a creare attrattiva tra i giovani verso questa organizzazione che è molto strutturata. Ha un esercito, Istituzioni e una forza economica. Ha il controllo di banche, aree petrolifere siriane e irachene e ha liquidità che gli permette di acquistare armi cinesi, russe, americane. Ha una strategia complessa e recentemente la sta anche cambiando. Per esempio, ha trasferito le sedi delle Istituzioni in località segrete in modo da essere al riparo ed evitare bombardamenti”.
Dopo che la BBC ha fatto girare un video registrato di nascosto da un’auto in movimento a Mosul e sempre più informazioni circolano sul modo di agire di Deash, Suha è ancora più incoraggiata a ripetere il suo messaggio e a far sapere agli italiani che “non bisogna credere alla propaganda da Deash”.
“Non è vero neanche che a Mosul i jihadisti hanno trovato numerosi sostenitori. Sono pochissimi, il resto è vittima. Io sono una figlia di Mosul e lo so. La bruttezza di Daesh non rappresenta noi iracheni. La battaglia per i diritti è lunga ma andremo avanti con coraggio”.
HuffingtonPost – 22 luglio 2015https://www.huffingtonpost.it/francesca-bellino/ho-incontrato-lattivista-irachena-suha-oda_b_7791596.html