E’ ancora scossa la popolazione di Ben Gardane a un mese dai violenti combattimenti in cui l’esercito tunisino, coadiuvato dai cittadini, ha avuto la meglio su un gruppo di jihadisti dello Stato Islamico intenzionato a conquistare la cittadina che dista pochi chilometri dalla Libia. L’operazione del 7 marzo, nella quale sono morti 55 terroristi insieme a 11 militari e 7 civili, ha permesso alle forze dell’ordine di catturare 52 attentatori, tutti di nazionalità tunisina, e di sequestrare kalashnikov, mitragliatrici, granate e munizioni scovate in diversi nascondigli in città e dintorni, ma soprattutto di infondere coraggio alla gente del posto. 

Se da un lato in Tunisia si assiste all’acutizzarsi della paura di nuovi attentati soprattutto per il crescente caos in Libia, dall’altro è evidente la presa di coscienza del problema terrorismo e una particolare determinazione nell’affrontarlo tanto che una famiglia di Ben Gardane, Dhi-Fallah, ha consegnato alla forze dell’ordine il figlio, tornato a casa giorni dopo l’attacco, pentito di avervi partecipato. 

Come fa notare a pagina99 Mostafa Abdelkebir, mediatore culturale e attivista di Ben Gardane, direttore esecutivo dell’Istituto arabo dei diritti umani per le regioni del sud della Tunisia, “c’è grande mobilitazione in città e i risultati si vedono, non solo nella riuscita rivolta popolare contro i terroristi, ma anche nel cambio di atteggiamento verso i terroristi stessi che provengono quasi tutti da quest’area”.

“Già da tempo abbiamo avviato un lavoro per creare distacco dall’appartenenza tribale e agevolare la visione dei terroristi come cittadini e non come parenti o amici – spiega Abdelkebir -. Puntiamo a eliminare questo senso di appartenenza per trasformarlo in solidarietà ed evitare il formarsi di una culla popolare per il terrorismo in questa zona”. 

Gli eventi di Ben Gardane fanno emergere fortemente due elementi che distinguono la Tunisia di oggi dagli altri paesi dell’area: la presenza di una società civile vigile e attiva e la schizofrenia insita nella sua identità che, in questa fase, le offre sia il primato di proseguire con successo la transizione democratica iniziata dopo la fuga di Ben Ali il 14 gennaio 2011, sia quello di registrare il maggior numero di foreign fighter partiti per il jihad.

Sono oltre 5 mila i tunisini unitisi allo Stato Islamico in Iraq e in Siria. Molti di loro si trovano in Libia, altri si sono infiltrati in patria perché la legge tunisina vieta il ritorno dei jihadisti. La Tunisia, dunque, deve difendersi soprattutto da quest’ultimi. E non basta la campagna “Il domani sarà migliore” (Ghodwa khir) contro l’integralismo islamico lanciata dal ministro degli Affari religiosi Mohamed Khalil, convinto che sarà utile a “veicolare i veri valori dell’Islam moderato” per evitare nuove radicalizzazioni. 

“La prima spinta verso la Stato Islamico è il clima di disperazione che regna nel paese – commenta a pagina99 Zied El Hani, capo redattore di uno dei principali quotidiani tunisini, Assahafa, tra i fondatori del sindacato dei giornalisti tunisini – Molti giovani emarginati cercano un senso alla vita e vengono attratti dal fascino del discorso jihadista che promette potere e gloria nella vita, o il paradiso e le huriat, le splendide vergini dell’aldilà”. 

Il paese, infatti, non si è mai ripreso dalla grave crisi economica che l’ha condotto alle rivolte del 2010, aggravata dagli attentati terroristici dello scorso anno al museo del Bardo il 19 marzo e a Sousse il 26 giugno, che hanno portato il turismo al collasso, settore primario dell’economia tunisina. Neanche il Nobel per la pace, assegnato al Quartetto per il dialogo nazionale lo scorso dicembre, ha rincuorato gli animi. “La vita quotidiana non cambia con un Nobel” hanno detto in molti. La voglia di migrare, infatti, è rimasta, così come corruzione, ingiustizie sociali, violenze, miseria e soprattutto esclusione sociale e disoccupazione. 

Basta uscire da Tunisi e viaggiare nelle strade che conducono ai villaggi dell’interno per scoprire che i caselli autostradali, gli incroci, i semafori, gli autogrill e le stazioni del louage pullulano di venditori ambulanti che offrono pane fatto in casa, prodotti cinesi, abiti usati, fino ad amuleti contro il malocchio e camaleonti appena catturati per i più superstiziosi in cerca di fortuna. “Nessuno più cerca lavoro. Ormai si scende in strada a vendere ciò che si ha – spiega un ragazzo -. Siamo diventati tutti Mohamed Bouazizi!”.

“Quel che c’è di buono in tutta questa disperazione – secondo Samy Elhaj, artista e cineasta – è che la nuova generazione comincia a pensarsi autonomamente, senza paragonarsi all’Occidente come hanno fatto i nostri genitori. Molti hanno capito che anche in Occidente non si sta bene. Peccato che l’unico lavoro che si trova qui è nei call center. Qualcuno tenta di entrare nel mondo politico ma se non ci riesce resta il jihad”. “Assistiamo a un ritorno di un ordine sotto una veste nuova – fa notare Elhaj a pagina99 – Il discorso rivoluzionario e le rivendicazioni sono annegate nella logica della sicurezza contro il terrorismo e il vento di coesione contro i jihadisti è solo un’esigenza delle masse che amano lo schema del buono contro il cattivo. E’ triste vedere la gente comune credere che l’unico problema sia lo Stato Islamico”. 

A sud del paese, intanto, la presenza dei terroristi è un’emergenza, non solo per le infiltrazioni, ma anche per le cellule dormienti. “Ben Gardane è un simbolo per i jihadisti da quando il loro capo Abou Mosäab Zarqaoui tempo fa la lodò – spiega El Hani -. Questi si aspettavano che i cittadini si sarebbero uniti a loro, ma è successo il contrario. I cittadini hanno affiancato le forze di sicurezza e, nonostante il grande arsenale di guerra introdotto dai jihadisti principalmente sotto il governo della Troika, la loro azione è notevolmente fallita”.

Un fallimento che ha inorgoglito alcuni giovani soldati al punto da celebrare l’evento con un selfie insieme ai cadaveri dei terroristi. La foto, pubblicata sui quotidiani locali e addirittura stampata su t-shirt, ha suscitando grandi polemiche nel paese anche se, come spiega l’antropologo Kerim Bouzouita “non c’è da stupirsi: dal Vietnam, la guerra si fa anche con le immagini. Lo Stato Islamico ne è maestro. I soldati potrebbero aver cercato di sfidarlo con la stessa arma”. Secondo l’antropologo l’episodio mostra anche “la necessità di riconoscimento dei soldati, vogliosi di esibire il valore militare e di sfidare la morte e i prossimi avversari, al costo di mettere a repentaglio la vita delle loro famiglie e di rischiare una punizione disciplinare, essendo riconoscibili nella foto”. 

“Dopo questo clamoroso insuccesso – osserva Mokhtar Ben Nasr, colonnello maggiore dell’esercito tunisino in pensione, oggi presidente del Centro tunisino di studi per la sicurezza globale (CTESG) – questi gruppi ci penseranno a lungo prima di ritornare alla carica, ma non bisogna abbassare lo stato di allerta in tutto il paese”.

La presidenza della Repubblica ha, infatti, prorogato di tre mesi lo stato di emergenza su tutto il territorio nazionale in vigore dal 24 novembre, quando un uomo si è fatto esplodere sul bus delle guardie presidenziali nel centro di Tunisi uccidendo 12 agenti. Decisione che non è piaciuta a parte della popolazione e che, secondo El Hani, “non ha alcun effetto sul paese”. “La sua estensione – spiega il giornalista – è illegale dal punto di vista giuridico. Nessun potere conferito da questo decreto al governo viene utilizzato. La legge è un’arma che richiede una mano forte. Purtroppo questo non è il caso della Tunisia”.

Per fronteggiare i rischi di nuovi attacchi a sud, intanto, il ministro della Difesa tunisino, Farhat Horchani, ha fatto potenziare il sistema di sicurezza includendo: muro di sabbia e fossato, controllo elettronico di videosorveglianza e ricorso a droni per la sorveglianza dei confini terrestri e le acque territoriali tra Tunisia e Libia. 

Il gruppo parlamentare Al Horra, nato dalla scissione del partito laico di maggioranza relativa Nidaa Tounes, ha invece depositato in Parlamento una proposta di legge per l’interdizione del niqab, il velo che lascia scoperti solo gli occhi delle donne, nei luoghi pubblici, per agevolare il lavoro degli agenti di polizia e dei militari nella lotta al terrorismo, mentre Olfa Ayari, presidente del Sindacato delle guardie carcerarie e degli Istituti di rieducazione, chiede di rivedere la già criticata nuova legge antiterrorismo perché “non comprende norme speciali per la collocazione in carcere dei detenuti arrestati per terrorismo, spesso messi nelle stesse celle dei condannati per reati comuni, cosa che può favorire la radicalizzazione tra detenuti”.

L’atmosfera, dunque, è tesa su più fronti e l’aria è pesante, anche a Tunisi. Basta andare in aeroporto. Da circa un anno non sono ammessi accompagnatori. Entra solo chi ha il biglietto e il passaggio al metal-detector è un obbligo anche all’ingresso, così come in hotel o teatri, com’è avvenuto durante le Giornate del Cinema di Cartagine lo scorso novembre, quando anche viale Burghiba è rimasta chiusa al traffico. 

Tra le preoccupazioni maggiori però c’è il caos libico. “Anche se viviamo a pochi chilometri dal confine, abbiamo una visione sfocata di quello che succede in Libia – racconta Abdelkebir – L’assenza di stabilità e la mancanza di Stato ufficiale centrale non ci ha permesso finora di coordinarci per un piano comune contro il terrorismo, ma la vigilanza dei nostri cittadini ha colmato questo vuoto dando vita a un fronte interno. Qui il morale è alto, soprattutto tra i giovani”. 

Anche Mokhtar Ben Nasr esprime ottimismo. “Nonostante gli attentati dell’anno scorso al Bardo, a Sousse e a Tunisi, credo che la Tunisia stia vincendo la scommessa – osserva l’ex colonnello -. Conduciamo una feroce battaglia contro i gruppi terroristici dal 2011. L’organizzazione Ansar al-Sharia, l’origine del male, è stata completamente distrutta. I suoi pochi capi sono scappati in Libia. Le differenti ali di quest’organizzazione, politica, logistica, operativa, mediatica, sono ridotte al nulla. Alcuni piccoli gruppi si nascondono al confine montagnoso algerino, anche se non hanno alcun supporto logistico, né più sostegno popolare. Intanto negli ultimi mesi sono state arrestate centinaia di cellule dormienti e molti attentati sventati”. 

La popolazione, però, resta in allerta, afflitta anche dalla notizia di disfunzioni emerse tra Magistratura e apparato di sicurezza. Tra i 432 terroristi rilasciati tra il 2012 e il 2013 per mancanza di prove, 11 sono stati rincontrati nell’assalto a Ben Gardane, altri morti all’estero. Pagina99 – 23/4/2016