La pratica dell’aborto selettivo tra indiani, cinesi e pakistani elimina milioni di bambine l’anno, secondo l’Onu. La tecnologia favorisce crudeli tradizioni si eliminazione sistematica: le ecografie sono un mercato prospero in India. Come si posiziona, in questo contesto, la libertà di scelta? Le opinioni di Matha Nussbaum, Amartya Sen, Remo Bodei e Roberto Esposito
Il tradizionale modo di dire diffuso in tutto il mondo “Auguri e figli maschi”, in India acquista un senso concreto e tragico che rispecchia uno dei paradossi più grandi incarnati oggi dal Paese. Lo sviluppo tecnologico e il miracolo economico non hanno cancellato valori culturali e usanze dell’antica tradizione tra cui quella di desiderare un figlio maschio, preferenza che rientra nella più ampia attitudine indiana delle discriminazioni di genere a danno delle donne. Nell’ Incredibile India, nonostante dal 1994 viga una legge che proibisce la pratica degli aborti selettivi di feti femminili e consideri illegali le ecografie prenatali che permettono di conoscere il sesso del nascituro, si registra un aumento del fenomeno con cifre allarmanti che hanno causato uno squilibrio demografico tra maschi e femmine quasi superiore a quello cinese dove vige la “politica del figlio unico”. Negli ultimi vent’anni “le donne mancanti”, così definite dall’economista Amartya Sen, sono state oltre 20 milioni.
Ma se in passato molte bambine morivano nei primi anni di vita perché la famiglie, in particolare quelle più povere, concentravano lo scarso cibo sull’alimentazione dei figli maschi lasciando le piccole in denutrizione, in epoca moderna la causa maggiore della disuguaglianza di natalità è stata la diffusione dell’aborto, reso legale nel 1972 e facilitato dall’espansione delle innovazioni tecnologiche. Oggi addirittura nelle campagne rurali sono arrivati apparecchi portatili per le iconografie “fai-da-te” che agevolano le famiglie nel praticare il “feticidio femminile” appoggiate spesso da medici disposti a ignorare la legge, anche perché raramente viene comminata una pena ai trasgressori. In una serie di reportage mandati in onda della televisione indiana Sahara Samay sono stati presentati dati scioccanti: almeno cento medici, sia del settore pubblico sia privato, si sono dichiarati disposti a praticare aborti selettivi. “La tariffa media è di 44 euro, ma può crescere a seconda dell’avanzamento della gravidanza. Per i resti? Basta prendere un risciò e farsi portare al fiume” ha detto uno di loro. Questa attitudine dei medici indiani è confermata dai numeri delle vendite di apparecchi ecografici in India. In un’inchiesta del Wall Street Journal, V. Raja, responsabile del settore sanitario della General Electric per l’Asia meridionale, ha dichiarato che “la società vende 15 modelli diversi il cui costo varia dai 100 mila dollari (70.700 euro) per gli apparecchi più sofisticati a colori, ai 7.500 (5.300 euro) per quelli in bianco e nero, e che spesso vengono strette intese con le banche per aiutare i medici a finanziare l’acquisto di tali apparecchiature, specificando però non devono essere utilizzate per la determinazione del sesso degli embrioni”. I risultati di queste vendite sono: un giro d’affari di 77 milioni di dollari (54,5 milioni di euro) nel 2006, con un aumento del 10% rispetto all’anno precedente, e la circolazione in India di circa 16 milioni di apparecchi ecografici illegali venduti anche a persone prive di formazione medica. Il tema dell’aborto, dunque, smaschera le contraddizioni dell’India globalizzata e permette di aprire un dibattito sulla coesistenza nella legge indiana tra legalità dell’aborto in generale e illegalità di quello di feti femminili.
“L’aborto è praticabile legalmente quando la donna è gravemente malata e il proseguimento della gravidanza può essere pericoloso per lei e per il bambino e quando le cattive condizioni economiche in cui vive la donna le impediscono il regolare svolgimento della gravidanza e il mantenimento del figlio” spiega l’avvocato Prem Murti Shandiyla. Secondo un rapporto pubblicato l’anno scorso dall’Uniceff su “La condizione dell’infanzia nel mondo” in India si registrano ogni giorno 7 mila nascite femminili in meno rispetto alla media mondiale e le cause sono socio-economiche. Un figlio maschio è preferito perché perpetua il nome della famiglia ed è considerato “forza-lavoro”, soprattutto nelle campagne, mentre una donna con il matrimonio deve abbandonare la propria casa per diventare “proprietà” di un’altra famiglia ed considerata “un cattivo investimento” perché richiede una dote elevata per conseguire un buon matrimonio. “E’ ormai evidente che il modello della disuguaglianza di genere in India si è spostata da quella nella mortalità a quella nella natalità – spiega Amartya Sen, Premio Nobel per l’Economia nel 1998 – ma peggio ancora, esistono prove evidenti che i sistemi tradizionali per combattere la disuguaglianza di genere come l’adozione di politiche per aumentare l’istruzione femminile e la partecipazione economica delle donne, non sono sufficienti a sradicare questa tendenza”. “L’incidenza degli aborti basati sul sesso inoltre – aggiunge Sen – non si può spiegare solo con la maggiore disponibilità di strumenti medici per accertare il sesso del feto: il Kerala e il Bengala Occidentale, che non sono stati deficitari, possono contare almeno sulle stesse strutture mediche di Stati deficitari come il Madhaya Pradesh, l’Haryana o il Rajastahan. Se in Kerala e in Bengala Occidentale il ricorso agli aborti basati sul sesso non è frequente, vuol dire che la domanda è bassa, non che esistono gravi ostacoli nell’offerta di questo particolare servizio. Il fenomeno, quindi, va al di là delle risorse economiche, della prosperità materiale e della crescita del Pil, ma affonda le radici nelle influenze culturali e sociali”. Il Premio Nobel che lega l’Economia all’Etica, per il quale lo sviluppo di un Paese si misura con il benessere delle persone e la giustizia sociale e non con il Pil, sottolinea che in India “prevalgono ancora valori maschilisti da cui le stesse madri possono non essere immuni. Per loro occorre, quindi, non solo la libertà di azione, ma anche quella di pensiero: libertà di mettere in discussione e analizzare le convinzioni ereditate e le priorità tradizionali”.
La filosofa Martha Nussbaum, docente di Legge ed Etica all’Università di Chicago, fa sua l’idea di Sen per il quale la libertà non è solo mancanza di coercizioni, ma anche messa in opera di risorse e apporti istituzionali tali da dare a tutti le stesse “capacità” (“quel che ciascuna persona può davvero essere e fare”), peculiarità che per Nussbaum corrisponde ai diritti. Nel suo libro “Giustizia sociale e dignità umana” la filosofa cita lo Human Development Report del 1999 redatto dal Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite che dichiara che nessun Paese tratta le donne bene quanto gli uomini e punta l’accento su come le minori opportunità date alle donne di vivere libere e godere dei propri diritti influisca sul loro benessere emotivo. Per Nussbaum, quindi, è “accettabile la posizione di essere contro l’aborto selettivo e a favore di quello in generale perché bisogna tener presente che il feticidio femminile è una conseguenza della discriminazione di genere ed è quindi l’espressione di una disuguaglianza. Scegliere di abortire in generale, invece, ha a che fare con la libertà della donna di pianificare il corso della sua vita e di conseguenza è un aspetto legato all’uguaglianza di genere. Se si considera che la tutela della libertà di scelta non richiede soltanto la difesa formale delle libertà fondamentali, ma anche dei presupposti materiali per metterle in pratica, è naturale che se una donna scopre di essere incinta di una femmina e sa che vivrebbe male o potrebbe morire di fame perché non ha i soldi per prendersi cura della figlia e darle una dote, potrà provare il desiderio di non trovarsi in questa situazione e sceglierà di abortire”.
Il filosofo italiano Remo Bodei analizza, invece, il fenomeno dell’aborto selettivo all’interno del più ampio tema dello sviluppo delle biotecnologie e del mutamento dei parametri tradizionali dell’esistenza. “Quel che appariva legato alle dure e imperscrutabili necessità del mondo si trasforma in oggetto di scelta, in un “anti-destino” scrive in Una scintilla di fuoco. Sul tema delle “donne mancanti” concorda con Nussbaum: “si può essere in favore dell’aborto per gravi ragioni ed essere contro la selezione basata sul sesso, sia perché tale discriminazione è semplicemente odiosa, sia perché altera la cosiddetta “sex ratio”, per cui nascono 105 maschi su 100 femmine in modo che a venticinque anni d’età siano 100 a 100, poi il numero dei maschi diminuisce e muoiono in media circa sei anni prima delle donne, e provoca squilibri nella popolazione”. “Ricordo – aggiunge Bodei – che anni fa, in Inghilterra, si concesse alle donne indiane e pachistane di abortire oltre il terzo mese. I risultati furono che su seimila feti, la quasi totalità erano di sesso femminile e gli altri, si potrebbe malignamente aggiungere, erano il risultato di una cattiva lettura dell’ecografia”.
Della stessa opinione è Rita Bernardini, segretaria del Partito Radicale in Italia, fazione politica che dagli Anni 70 ha combattuto l’aborto clandestino ed è stata fautrice dell’attuale regolamentazione della cessazione di gravidanza. “E’ vero che l’India è una democrazia e vive un periodo di grande vitalità, ma fin quando la donna sarà sottomessa e vittima di disuguaglianze, fenomeni come l’aborto selettivo continueranno a verificarsi, ed è atroce. La strada per superare il problema può essere quella di dare voce a queste donne. L’aborto è sempre un dramma, ma se molte lo scelgono sono da comprendere per le forti discriminazioni che subiscono, la presenza di una cultura tradizionalista ancora forte e le difficili condizioni in cui spesso sono costrette a vivere. Basta pensare che in India 700 milioni di persone non hanno neanche accesso ai servizi igienici”. Per il filosofo italiano Roberto Esposito “il feticidio femminile rientra nella pratica ‘tanatopolitica’, di politica della morte, che ha toccato il suo apice mortifero nel nazismo, ma che si riproduce in tutti i casi in cui l’aborto diventa collettivo, ossia viene esteso a gruppi umani in base a questioni di razza, di genere, o a convenienze economiche e demografiche”. “L’aborto (tema che ha trattato nel libro “Bios. Biopolitica e filosofia”, Einaudi, tradotto in Argentina da Amorrortu) – aggiunge – è sempre un atto doloroso, ma quando assume un carattere di massa diventa una forma di sterminio legalizzato da parte dello Stato. Che ciò sia stato vietato in India costituisce un indice importante della svolta democratica di questo Paese e un’indicazione positiva per tutta l’area geopolitica asiatica”. “Per una donna indiana non è facile scegliere di abortire: è come rifiutare un dono prezioso”. Lo sottolinea la dottoressa indiana Nancy Myladoor. “Per cultura – dice – In India ogni donna sogna una famiglia e dei bambini. Molte di loro, infatti, per sfuggire all’ignoranza e al maschilismo decidono di tenere il loro bambino anche senza il supporto della famiglia e del marito. Per aiutarle nel momento in cui vengono rifiutate dalla famiglia e dalla società sono nati nel Paese molti orfanotrofi e centri di accoglienza. Dal ’97 io, insieme a mio marito Thomas, ne gestiamo uno a Thodupuzha in Kerala dove attualmente ospitiamo 50 mamme e 180 bambini, dando loro un tetto dove vivere e la possibilità di imparare un mestiere che le rende autosufficienti nel momento in cui decideranno di andar via”.
Sono tante anche le iniziative nel Paese per reagire al problema dello squilibrio delle nascite e per sensibilizzare e incentivare le donne a non scegliere la strada del feticidio femminile. La città di New Delhi ha lanciato il “Girl Child Protection Scheme”, un piano per la protezione delle bambine che consiste nell’offerta di 5 mila rupie (100 euro) per ogni bambina che nasce. La somma viene depositata su un libretto di risparmio, vincolato in banca fino al compimento del 18esimo anno. La ragazza potrà rilevare la sua dote, compresa di interessi maturati nel tempo, a patto che abbia frequentato la scuola fino alla maggiore età. Lo Stato settentrionale del Punjab, invece, offre ogni anno un premio di 5 mila euro al villaggio agricolo che avrà la più alta percentuale di bambine fra i neonati. Il Governo indiano, insieme al Plan International, ha addirittura prodotto una soap-opera sul tema. Si intitola “Nata dall’anima” e narra la storia di una madre impossibilitata a scegliere per sé, costretta dalla famiglia del marito a un parto cesareo prematuro per liberarsi del feto indesiderato. Situazione ancora troppo ricorrente in India nonostante la legge lo vieti! Pubblicato su “N”, inserto culturale del “CLARIN” (quotidiano di Buenos Aires) 1/3/2008, articolo vincitore della Targa Olaf al Premio Cronista Piero Passetti 2009