Decine di donne allineate con gli occhi bendati e l’indice puntato in alto si muovono sincronizzate al ritmo della canzone “Un violador en tu camino” per protestare contro la violenza sulle donne. Una coreografia che ha fatto il giro del mondo ed è arrivata fino in Tunisia. Si tratta del flah-mob partito lo scorso 25 novembre da Valparaiso, in Cile, per manifestare contro lo “Stupro di Stato”, riproposto nelle piazze di tante città, da Bogotà a Città del Messico, da Barcellona a Madrid, da Bruxelles a Parigi, da Londra a Bristol, da Berlino a Roma, e ripetuto anche a Tunisi il 14 dicembre.
Le tunisine hanno ripreso la coreografia del gruppo femminista Las Tesis, hanno proposto la canzone in arabo e hanno cantato con impeto il messaggio “Lo stupratore, sei tu!” davanti alla sede del Governo, in piazza Kasbah. Ed erano in tante. Un gruppo vigoroso, motivato e compatto che ha le sue fondamenta nelle promotrici del movimento #EnaZeda, un collettivo nato il 15 ottobre 2019 sulla scia del movimento internazionale #MeToo e delle sue declinazioni locali #BalanceTonPorc, #YoTambién, #Quellavoltache che si sono moltiplicate sui social network in seguito al caso Weinstein a partire da ottobre 2017.
EnaZeda in dialetto tunisino vuol dire “Anch’io” e aggiunge la declinazione araba al grido globale delle donne che hanno preso la parola per dire basta al patriarcato e alla violenza maschile e per denunciare abusi, molestie e aggressioni verbali e fisiche. L’hashtag #EnaZeda si è diffuso in un baleno su twitter e facebook, raggiungendo numeri da record per il mondo arabo e coinvolgendo anche l’opinione pubblica straniera.
I post che hanno accesso la miccia sono stati scritti da una ragazza di Nabeul, piccolo centro a nord-ovest della Tunisia, che ha accusato di molestie un uomo che si masturbava davanti a lei nella propria automobile parcheggiata vicino la sua scuola. La giovane ha postato anche le fotografie dell’uomo che è stato identificato nel deputato neoeletto con il partito Qalb Tounes alle ultime elezioni legislative dello scorso 6 ottobre, Zouheir Makhlouf. Inizialmente il politico si è difeso spiegando di essersi abbassato i pantaloni per urinare a causa di un’incontinenza dovuta al diabete, ma la versione non ha convinto gli inquirenti e ora è indagato per “molestie sessuali e indecenza”.
“Questa volta le molestie sono accadute in un villaggio a 70 km da Tunisi e non a Hollywood” aveva commentato su Facebook Lina Ben Mhenni, l’attivista che si era fatta conoscere durante la rivoluzione con le cronache sul suo blog “A tunisian girl”, scomparsa a soli 36 anni lo scorso 27 gennaio.
Lina Ben Mhenni aveva specificato: “Non credo che vi sia una sola donna in Tunisia che non abbia vissuto un episodio di molestia”. E infatti l’accaduto di Nabeul ha scoperchiato il vaso e ha incoraggiato migliaia di donne a raccontare senza vergogna maltrattamenti e abusi subiti.
“Abbiamo ricevuto migliaia di testimonianze principalmente da donne vittime di violenze sessuali, ma anche da uomini e membri della comunità LGPTQ che hanno approfittato di questa atmosfera di liberazione della parola per condividere le loro storie traumatiche” racconta Nawrez Ellafi, responsabile dell’ong Aswat Nissa (Voci delle donne), a cui fa capo il movimento EnaZeda.
Quando incontro Nawrez nella sede della ong situata nel quartiere La Fayette a Tunisi, mi mostra una serie di sagome nere di donne senza volto che portano sul corpo le loro storie scritte in bianco, pronte per sfilare alla prossima manifestazione di protesta. Ogni sagoma rappresenta una storia simbolo. La maggioranza riguarda soprusi subiti durante l’infanzia da parte di parenti o amici di famiglia.
Nell’attuale momento di caos politico della Tunisia – unico Paese arabo a lottare per proseguire il cammino democratico intrapreso all’indomani della cacciata di Ben Ali il 14 gennaio 2011 -, le tunisine sono intenzionate a tenere alta l’attenzione sul tema per non disperdere la grande eredità lasciata dal presidente Habib Bourghiba con il moderno Codice di Stato Personale del 1956 con cui furono aboliti la poligamia e il ripudio. “Condividete esperienze su internet e rivendicate l’abolizione delle leggi che consentono allo stupratore di sposare la vittima” dicono alle altre donne arabe, invogliandole a seguire il loro esempio.
“Aswat Nissa – spiega Nawrez Ellafi – è un’organizzazione non governativa femminista nata nel 2011, indipendente da influenze politiche, che promuove la cultura egualitaria e incoraggia le donne tunisine a rivendicare il giusto posto nella vita pubblica e nella politica”.
Denunciare e chiedere giustizia, dunque, in Tunisia non sono più un tabù, ma sono ancora tanti gli ostacoli che da superare per raggiungere la parità di genere stabilita dall’art. 46 della Costituzione del 2014. “Nonostante l’ampliamento della mentalità dei tunisini – sottolinea Ellafi -, la società continua a far sentire colpevoli le vittime di violenze sessuali. E’ ancora esiguo, inoltre, il numero di denunce registrate dagli agenti di polizia che, purtroppo, sono spesso poco sensibili e non formati a fornire un sostegno reale alle vittime e ancora troppo abituati a banalizzare questi crimini”.
Con la riforma legislativa approvata il 26 luglio 2017 ed entrata in vigore l’1 febbraio 2018, le tunisine hanno tirato un sospiro di sollievo e urlato al “voto storico” non solo perché il problema della violenza contro le donne è passato da questione privata a questione di Stato, ma perché sono state apportate modifiche significative, tra cui l’abrogazione dell’art.227 bis del codice penale – “l’articolo della vergogna” – che permetteva al violentatore di sfuggire alla pena e ottenere il “perdono” dalla vittima sposandola.
“Questa legge organica ha coronato gli sforzi gli tutti gli attivisti della causa femminista, prima e dopo la rivoluzione – sottolinea Ellafi – perché adotta un’ampia definizione di violenza contro le donne tenendo conto di quella fisica, morale, sessuale, economica e politica”. La legge, infatti, ha un approccio globale e mira alla prevenzione, alla protezione delle vittime e alla punizione dei colpevoli.
“Più di due anni dopo, però – specifica Ellafi -, i crimini sessuali sono ancora diffusi. Per poterla applicare per bene è indispensabile una vera volontà politica volta a attribuire i budget necessari per l’integrazione di un approccio di genere nelle riforme della sicurezza e a garantire protezione e assistenza specifiche per le vittime”.
Per la responsabile di Aswat Nissa, per affrontare il problema della violenza contro le donne alla radice “è necessario includere gli uomini nel processo femminista, trasformandolo così in un processo sociale”.
“Al momento – aggiunge Ellafi – la popolazione maschile è divisa sul processo di emancipazione delle donne. Sempre più uomini supportano attivamente il movimento e sono forti sostenitori dei diritti delle donne, ma ce ne sono altri che ancora banalizzano le esigenze femminili. Lascia, però, ben sperare la comparsa per la prima volta in Tunisia di ‘gruppi di parola’ per confrontare le esperienze, a cui partecipano anche tanti uomini”.
Articolo pubblicato su www.confronti.net nel mese di marzo 2020