Il femminismo degli anni Settanta è stato senza dubbio un grido di libertà e una presa di coscienza della violenza della mentalità patriarcale insita nelle società, ma è stato anche e soprattutto la scoperta dell’individualità delle donne fino ad allora considerate semplicemente un genere uniforme e “debole”.
La forza del femminismo in Italia e altrove è stata quella di svelare i vissuti delle singole donne che si raccontavano nei cosiddetti “gruppi di autocoscienza” declinando al singolare e in privato un movimento pubblico e collettivo in sviluppo e che poi provavano a tradurre in azioni quotidiane le loro personali “rivoluzioni”.
Per parlare di femminismo, dunque, non si può non passare attraverso le storie delle ragazze che sono state protagoniste di un’epoca che non ho vissuto ma che mi appartiene sia perché sono nata proprio nel mezzo degli anni Settanta, all’origine dei cambiamenti, sia perché sono grata a quelle ragazze per l’eredità ricevuta e per lo stimolo a proseguire la costruzione di un immaginario femminile libero e indipendente dalla visione maschile.
Quando ho incontrato una di quelle ragazze, Fufi Sonnino, mi sono commossa per la modernità della sua vita e per la forza dei suoi gesti. La sua storia è impregnata di femminismo nel senso più nobile del termine e ci racconta con generosità più di ogni libro che cosa ha significato per le donne dell’epoca rivendicare diritti e trovare il coraggio di essere se stesse.
Nell’audio-documentario “Chiamatemi Fufi” la sentiremo parlare ed emozionarsi nel raccontare la sua ‘rivoluzione’ fatta di piccoli gesti quotidiani, pensieri nuovi e un’immensa creatività. Un illuminante esempio ancora oggi.
Fufi Sonnino è nata a Roma nel 1940 “sotto le bombe”, da padre ebreo e madre cattolica. Da adolescente ha scoperto di innamorarsi delle donne, grazie a un viaggio in Olanda ha capito che poteva trasgredire al destino sociale assegnato normalmente alle donne e negli anni Settanta ha iniziato a militare nel movimento femminista romano diventando la voce del collettivo che aveva sede al civico 94 di via Pompeo Magno.
Fufi non aveva studiato musica ma sapeva suonare a orecchio così quando “durante le manifestazioni si sentiva il bisogno di cantare, ma tra le compagne mancava una cantautrice” lei ha cominciato a scrivere le prime canzoni ‘femministe’ dell’epoca.
La prima in assoluto è stata scritta a più mani ed era una parodia de La canzone di Marinella di Fabrizio De André che Mina aveva portato al successo in televisione, a Canzonissima del Sessantotto.
“Si pensò di lavorare su una melodia già nota e così ognuno di noi aggiungeva una parola o una frase fino a che, durante una manifestazione dell’8 marzo a Campo de’ fiori, la intonammo insieme: “Questa di Marinella è la storia vera / lavava i piatti da mattina a sera / e un uomo che la vide così brava / pensò di farne a vita la sua schiava…”.
Poi sono arrivate Storia di una cosa (1970), La mia utopia (1972), Amore (1972), Mi Guardo in uno Specchio (canzone omosessuale scritta nel 1972), Tango della femminista (1973), Abortire (1973), Il mestiere più antico (1973), Samba di Pompeo Magno (1976) e Lilith (1978) dedicata “alla prima donna creata a immagine e somiglianza di Dio ma fatta passare per un demone”.
Le canzoni, scritte come filastrocche dal sapore romanesco, condensavano il senso del dibattito, ma “senza un approccio intellettuale, solo con la melodia”. “Erano pensieri profondi scritti con l’intenzione di toccare il disagio delle donne – spiega Fufi -. In quel momento si cominciava a percepire quanto fosse importante il diritto di poter scegliere la propria vita. Molte avevano preso coraggio, protestavano contro l’oppressione maschile e portavano avanti le proprie idee. Ognuno scriveva un cartello, lo indossava sul petto e usciva”.
Così nelle piazze e per le strade gli slogan lanciati e scritti sui manifesti e gli striscioni erano chiari, precisi e talvolta ironici: “Siamo stufe di fare da stampelle al potere maschile”, “Orgasmo vaginale, fregatura patriarcale”, “Più devianze, meno gravidanze”, “Matrimonio, prostituzione legalizzata”, “La maternità è sacra e le ragazze madri?”, “Se fosse l’uomo ad abortire, l’aborto sarebbe un sacramento”.
A distanza di cinquant’anni dai primi passi della “rivoluzione del femminile”, i racconti, le canzoni e i gesti di Fufi Sonnino risuonano oggi attuali e vitali e ci dicono che liberare la parola è un atto necessario, ma non significa conquistare in automatico una parola e una vita libera. Bisogna portare i cambiamenti nei gesti della quotidianità. La strada è ancora lunga e ora tocca a noi.
PODCAST: https://www.raiplaysound.it/playlist/chiamatemifufi