Dieci anni fa la Tunisia ha stupito il mondo. Centinaia di persone si sono riversate in strada e nelle piazze per rivendicare diritti socio-economici mai reclamati prima con tanta forza e determinazione. Era arrivato il momento, quel momento di esasperazione tale da rompere anche le catene più solide e liberare le menti dalla cappa repressiva imposta dal regime, fino ad abbatterlo. Il presidente Ben Ali, rimasto al potere per 23 anni, dopo settimane di proteste fugge in Arabia Saudita il 14 gennaio 2011.
Fa effetto oggi, in questa fase in cui la pandemia ci ha insegnato il distanziamento sociale, rivedere quelle folle oceaniche di cittadini, uno attaccato all’altro, procedere compatti verso una strada nuova. A distanza di dieci anni da quei giorni tesi ed entusiasmanti, ancora oggi la Tunisia prosegue su quell’arduo cammino di cambiamento, un cammino intrapreso molto prima del 17 dicembre 2010 quando Mohamed Bouazizi si da fuoco a Sidi Bouzid per protestare contro la polizia che gli ha sequestrato il carretto della frutta e della verdura. L’espressione del malcontento, il desiderio di ribellione e le proteste erano cominciate molto tempo prima, ma venivano soffocate e soprattutto nascoste ai media occidentali per mantenere l’immagine del paese che da sempre Ben Ali proiettava all’estero, l’immagine di una Tunisia libera, sicura e ben governata. Ma la realtà era un’altra e la rabbia del popolo era arrivata all’apice quando l’evento scatenante del suicidio tra le fiamme del giovane fruttivendolo fa partire sommosse e rivolte in tutto il paese e la notizia si diffonde nel mondo.
Anche l’Italia è stata sorpresa dagli eventi perché in pochi conoscevano le reali condizioni in cui vivevano i tunisini, celate dietro le cartoline perfette costruite da Ben Ali. Solo quando blogger e artisti hanno preso la parola e hanno liberato emozioni e pensieri, il mondo ha cominciato a capire che qualcosa di inatteso e dirompente stava accedendo nella vicina Tunisia.
Io ero a Tunisi nei mesi che hanno preceduto le rivolte di dicembre. Stavo lavorando a un romanzo ambientato tra Italia e Tunisia in cui mi interessava mettere a confronto l’approccio alla libertà di due giovani donne, l’italiana Mary e la tunisina Meriem, e costruire vicende a specchio per mostrare come anche l’italiana, apparentemente indipendente e libera, vivesse pesanti condizionamenti simili a quelli della tunisina, cresciuta in ambiente repressivo sia in famiglia, sia fuori.
Riflettevo sul tema della libertà, perché per molto tempo anche io ho pensato di essere libera, ma non lo ero. E non erano gli sproporzionati impegni scolastici, né le amicizie asfissianti o le rigide regole di casa a limitare i miei pensieri e le mie azioni, ma il dover proteggere mia madre dalle “brutte figure”. Sono cresciuta con il mantra: “Comportati bene, altrimenti mi fai scomparire”. Ancora oggi me lo sento dire, ma quasi non ci faccio più caso, mentre da bambina ero terrorizzata dal pensiero che mia madre potesse sparire per colpa mia, così controllavo i gesti per proteggerla e, pian piano, mi allontanavo dalla mia libertà.
Per anni ho portato il peso della sua vergogna di fronte allo sguardo altrui, uno sguardo severo che ha condizionato ogni sua scelta in nome di un protocollo arcaico del Sud. Il suo messaggio era chiaro: non dovevo farle fare “brutte figure”, come se comportarsi bene escludesse l’essere autentica e schietta. Se avessi agito assecondando troppo me stessa l’avrei costretta ad arrossire e a nascondere per la vergogna, e quindi a “scomparire”. E io non volevo che lei scomparisse!
Una sola frase ha creato il mio primo grande condizionamento che, sommato agli altri vincoli sociali e culturali incontrati sul mio cammino, ha avviato un processo di continue autocensure che hanno formato quella che oggi definisco una “dittatura interna” e che negli anni mi ha spinta a fare della ricerca della libertà un esercizio costante, faticoso ma anche creativo ed entusiasmante.
Anche la scrittura del romanzo è rientrata in questo percorso. Un esercizio intimo, in parte inconscio, che mi ha condotto nel cuore di una pagina centrale della storia del Mediterraneo, andando oltre i fatti e puntando a scavare nell’animo umano.
Si sa che la vita ha molta più fantasia di noi e, mentre stavo per chiudere una delle tante stesure della storia che è diventata “Sul corno del rinoceronte”, la realtà mi è venuta incontro facendomi un dono per la scrittura e per l’animo. In Tunisia sono esplose le rivolte che hanno avviato la cosiddetta “primavera araba”, un evento inaspettato ed elettrizzante che pian piano è entrato nelle pagine del romanzo creando uno sfondo storico che rafforzava le psicologie delle due donne impegnate a compiere le proprie rivoluzioni personali e a sconfiggere il “rinoceronte” annidato dentro di loro sempre pronto a condizionarle, limitarle, manipolarle, come fa il Potere.
Sono trascorsi dieci anni da quei giorni che ho vissuto con il cuore in gola avendo eletto la Tunisia come seconda patria. Dieci anni pieni di cadute e rialzate per la giovane democrazia tunisina. Anni intensi, vissuti in un continuo oscillare tra entusiasmi e pessimismi, dall’euforia per le prime elezioni democratiche alle aspettative tradite dalla nuova classe politica, dall’approvazione della nuova Costituzione ai continui naufragi nel Mediterraneo, dallo choc per gli attentati terroristici al Bardo e sulla spiaggia di Sousse alla gratificazione del Nobel per la Pace al quartetto per il Dialogo Nazionale, dal proliferarsi di foriegn figthers all’emergere di giovani artisti, poeti e scrittori, dall’apertura della Città della Cultura alla rabbia espressa dal movimento femminista Ena Zeda per difendere e consolidare i diritti delle donne, dai riconoscimenti mondiali di film come “The Last Of Us”, “Fatwa” e “The Man Who Sold His Skin” alla morte del turismo, fino ai recenti scioperi dei magistrati.
“Una rivoluzione è veramente una grande esperienza, anzi un’avventura del cuore” ha scritto il reporter polacco Ryszard Kapusciński in uno dei suoi libri spesso dedicati a popoli desiderosi di libertà. Eppure, oggi, sentire nominare la cosiddetta “rivoluzione dei gelsomini” fa storcere il naso sia ad alcuni analisti e politologi internazionali, sia a molti cittadini tunisini scontenti che la considerano una rivoluzione “incompiuta” o addirittura “abortita” perché la maggior parte dei problemi del paese si è incancrenita, poco è migliorato nelle vite delle persone e troppe incognite incombono sul futuro. Ma le rivoluzioni sono processi di trasformazione lunghi e complessi.
A soli dieci anni dall’inizio di quel processo, nonostante la frammentazione politica, il pericolo dell’Islam radicale, la disoccupazione crescente, la corruzione del sistema e l’insanabile crisi economica aggravata dall’emergenza sanitaria, c’è comunque da festeggiare. C’è da festeggiare l’avvio di una transizione democratica ma anche da rievocare il sapore dolce della dignità.
Il risveglio del popolo tunisino in me ha rafforzato il desiderio di addentrarmi nella dimensione della sconfitta dei mostri interiori, a miei occhi simili a spietati dittatori, e ha rievocato immagini come quella del rinoceronte avido e crudele che sbrana i cuccioli di gazzella senza lasciare nulla agli amici leoni che avevo ritrovato in una delle storie del libro degli animali di Al-Jahiz, “Kitab al-Hayawan”.
Frugando nella letteratura e nella poesia araba mi sono spesso lasciata incuriosire dall’uso ricorrente di similitudini e metafore che attingono al regno animale. Le gazzelle sono il simbolo della bontà, il cavallo della forza, l’uccello della libertà conquistata o negata, così come l’ululato del lupo simboleggia l’espressione della sofferenza, talvolta della felicità. Indimenticabili gli ululati del protagonista del romanzo dell’algerino Amara Lakhous, “Scontro di civiltà per un ascensore a pizza Vittorio” (e/o 2011).
Proprio nei giorni in cui il mio rinoceronte – metafora di tutte le dittature -, perdeva le sue sembianze autoritarie nella storia e anche io pian piano, scrivendo, mi liberavo del suo potere repressivo, in Tunisia l’illustratrice Nadia Khiari partoriva il suo contraltare, il personaggio di un gatto randagio audace e disubbidiente diventato simbolo della libertà conquistata dai tunisini. Il gatto, noto come Willis From Tunis, è ancora oggi l’alter ego dell’artista che con i suoi disegni commenta in francese l’attualità tunisina, senza peli sulla lingua, su vari giornali, tra cui “Siné Mensuel” e “Courrier International”.
“Ho disegnato la prima vignetta durante il discorso di Ben Ali del 13 gennaio in cui l’ex presidente prometteva, tra l’altro, la libertà di espressione pur di restare al potere. Disegno Willis da dieci anni e non mi sono mai stancata. La rivoluzione è bella, ma è lunga” spiega Nadia che al suo gatto ha messo in bocca tante verità sulla crisi economica e sul terrorismo, ha ironizzato sulla nostalgia del vecchio regime e attaccato gli islamisti, la classe politica e “le decisioni assurde come quelle sulla legge finanziaria 2021”.
In una delle vignette di venerdì 14 gennaio 2011, Willis esclama gioioso: “Fine di una repubblica bananiera grazie al suicidio di un venditore di banane. Esiste una giustizia!”. E poi aggiunge: “E’ il solo venerdì in cui possiamo festeggiare ubriacandoci”.
Per celebrare l’anniversario dalla rivoluzione, le sue vignette irriverenti sono state raccolte nel libro “Willis From Tunis, 10 ans et toujours vivant!” pubblicato da Édition Elyzad. E possiamo constatare che dieci anni dopo non solo Willis from Tunis è ancora vivo, ma è anche sempre più consapevole del suo essere libero, così come lo sono i tunisini che, seppur schiacciati dalla crisi economica e politica, restano liberi di pensare, di parlare, di scrivere, di criticare e di sognare un mondo diverso, senza dimenticare che la rivoluzione non è finita e, come ci ricorda Nadia Khiari, “dobbiamo continuare a lottare per mantenere una delle rare conquiste della rivoluzione: la libertà di espressione”.
Confronti – 18 dicembre 2020