Un proverbio indiano ci ricorda che “Qualunque cosa si dica sull’India è vero anche il suo contrario”. E’ vero dunque che in zone povere come l’Orissa si verificano conversioni forzate, persecuzioni e aggressioni contro la comunità cristiana a opera di induisti estremisti, e in particolare dalla scorsa estate 50 mila credenti sono stati espulsi da casa, 315 villaggi attaccati, 151 chiese e luoghi di culto bruciati e molte persone sono state ferite e altre addirittura morte, ma è altrettanto vero che esistono isole felici dove regna pace e convivenza tra religioni e dove sopratutto i cristiani vivono serenamente il loro credo. 

Uno di questi posti è Nazareth, un piccolo villaggio del Tamil Nadu, situato nel distretto di Thoothukuri, popolato da una comunità cristiana che festeggia Natale e le altre festività della tradizione senza clamori. A differenza della Nazareth israeliana, infatti, quella indiana non gode di fama nel mondo, non è presa d’assalto da turisti e vive lontana dai riflettori. Qui le decorazioni natalizie e pasquali non vengono rimosse con violenza, ma ornano strade e negozi senza infastidire i credenti di altre religioni. Gli abitanti, che sono poco più di 16 mila, non vivono nel terrore. Ci sono sette chiese, altrettante scuole, nessun supermercato e due internet point. Ci si muove in bicicletta o in risciò e sulla Thomas Brotherton Street, la strada principale, si incontrano venditori ambulanti di frutta, pane e spezie. Come in altre zone dell’India del Sud si è continuamente seguiti dagli occhi di immagini di Gesù Cristo posizionate in molti angoli delle strade. “Qualcuno pensa addirittura che Gesù sia nato in India” dice un ragazzino all’ingresso della chiesa più grande del villaggio, la Saint John’s Cathedral che la notte di Natale accoglie la maggior parte dei cittadini a mezzanotte in punto, quando le signore sfoggiano il loro sari nuovo e variopinto e fiori bianchi nei capelli. Uomini da una parte, donne dall’altra. Scarpe rigorosamente lasciate fuori, abitudine che risente degli influssi della tradizione religiosa indigena, dato che non si accede mai a un tempio induista o in una moschea con le scarpe ai piedi. In mano di ognuno c’è la Bibbia e nell’aria si sentono profumo d’incenso e canti solenni. Il giorno successivo ogni famiglia invita per il pranzo i vicini anche se professano un altro credo. “Natale, Capodanno e la Befana in India, soprattutto nel Sud, vengono festeggiati insieme a persone di altre religioni, musulmani, induisti, sikh, parsi – spiega Biju Krishnon, un giornalista che per la sua festa ha invitato amici di ogni credo – e anche i cristiani partecipano alle feste dei calendari di altre fedi”. 

Il menù di Natale è meno ricco di quello dei cristiani d’Occidente, mentre le preghiere sono più numerose. In tavola, dopo aver ringraziato il Signore, vengono serviti riso basmati, verdure, somosa, ovvero fagottini di patate e piselli, e baigan bharta, purè di melanzane. Ognuno si curva su stesso per avvicinare alla bocca e inghiottire palline di riso raccolte con abilità nelle mani. Non si usano le posate. Non si usano tovaglie rosse. Non si usa l’albero di Natale e non si usano i regali anche se per le strade di può incontrare Babbo Natale.  

Il tassista che mi accompagna alla stazione del treno di Nazareth non è il solito indiano taciturno, ma ama parlare. Per lui “il segreto della società pluralista e multireligiosa indiana è sintetizzato in una parola: swīkriti”. Lui come molti altri suoi connazionali, pur essendo induista, porta in macchina l’immagine di Gesù. Swīkriti viene dal sanscrito e vuol dire “accettazione”, riconoscere all’altro il diritto di vivere la propria vita, di seguire le proprie credenze e i propri costumi, inglobando la diversità religiosa nell’unica identità indiana. Nello Stato del Kerala e ancor più a Goa se chiedi a un giovane in che religione crede, nella maggior parte dei casi questo risponde: “Credo in tutte le religioni”, affermando sia l’idea di un Dio unico, sia la percezione della varietà di comunità presenti sul territorio come un’unità. Diversa è la situazione a Nazareth dove il 70% della popolazione professa il cristianesimo. 

La storia dei cristiani d’India risale all’arrivo di San Tommaso. Oggi sono circa 60 milioni e rappresentano solo il 2,3 % della popolazione totale, di cui l’1,8% fa parte della Chiesa cattolica. Nonostante siano una minoranza, però, per ragioni storiche, politiche e sociali, oltre che religiose, i cristiani curano il 20% dell’educazione primaria del Paese, il 10% dei programmi di alfabetizzazione e di sanità pubblica, il 25% della cura degli orfani e delle vedove e il 30% della cura di disabili, lebbrosi e malati di AIDS e la maggioranza delle persone che usufruiscono di questi servizi sono fedeli di altre religioni. Gli Stati a più densa presenza cristiana sono il Kerala (che ha un governo comunista) e il Tamil Nadu. Entrambi registrano i più alti gradi d’istruzione, i più solidi indici di emancipazione della donna e i più bassi tassi di natalità. Il ceppo più antico dei cristiani d’India è d’impronta e rito siriano. Si racconta che l’apostolo Tommaso sia sbarcato in India presso Cranganore, l’attuale Cochin, in Kerala, verso l’anno 50 e che abbia predicato molti anni lungo la costa del Malabar convertendo prevalentemente famiglie agiate. Oggi a lui è dedicato un Santuario a Mylapore, vicino a Madras. “E’ difficile determinare l’origine esatta della nascita dei cristiani di San Tommaso – mi spiega il parroco della chiesa – ma è certo che già alla metà del primo millennio costituissero una componente significativa nel mosaico etnico-religioso del Malabar. Molti storici considerano la spedizione di Vasco da Gama e dei portoghesi nel ‘500 l’inizio effettivo del cristianesimo in India e attribuiscono a Francesco Saverio e ai gesuiti le grandi conversioni di massa, in particolare dei ceti più bassi. Spesso il convertirsi al cristianesimo, così come all’Islam, era un modo per fuggire al sistema delle caste, anche se poi queste dinamiche sociali sopravvivono e sono dure a morire, specie nelle zone dove regna ignoranza e povertà”. 

Negli istituti scolastici fondati da missionari cristiani in queste aree oggi più sviluppate, infatti, tutti possono studiare senza distinzioni di casta a differenza delle regioni più povere dove i figli degli Intoccabili, i “dalit”, ovvero i diseredati, ancora vengono discriminati nell’accesso all’istruzione. Gli induisti tradizionalisti, oltre a sentirsi minacciati dalla Chiesa cristiana per il suo essere “pervasiva, straniera e non integrata nella cultura indiana”, sono preoccupati proprio per la sua presa sugli Intoccabili che fa crescere il rischio che le caste più sfavorite, avendo accesso a un’istruzione migliore, scavalchino il vasto ceto medio delle zone rurali. “La caccia al cristiano registrata nell’ultimo periodo in Orissa, proseguita anche nel periodo natalizio – spiega Scaria Thuruthiyil, professore di filosofia delle religioni all’Università Pontificia Salesiana a Roma – è solo un’eccezione. Il 98% dei cristiani vive in pace perché gli induisti sono un popolo tollerante. L’origine delle violenze risiede nella nascita di movimenti estremisti che hanno fatto entrare la politica nella religione”. Dunque se è vero che “qualunque cosa si dica sull’India è vero anche il suo contrario”, è vero che nello Stato dell’Orissa, dopo le ultime persecuzioni, molte scuole sono ancora chiuse, molti cittadini sono ancora sfollati in campi profughi e molte chiese sono rimaste sventrate, come è vero che a Nazareth regna l’armonia.

Il Riformista – 1/3/2009