Per comprendere il presente è necessario studiare il passato. Sbirciando nelle cronache delle rivoluzioni dell’ultimo ventennio, per esempio, si trovano elementi utili per capire le recenti “primavere arabe”. Si nota, in particolare, la presenza di un’ispirazione comune che ha mosso le fila di queste rivolte presentate come popolari, pacifiche e spontanee: le teorie del politologo americano Gene Sharp, classe 1928, famoso per aver scritto Come abbattere un regime. Manuale di liberazione nonviolenta (in Italia tradotto da Chiarelettere). Il pensiero di Sharp, infatti, è considerato da molti la fonte ispiratrice “a distanza” dei movimenti civili di Belgrado, di Tirana, di Pristina, di Kiev, di Tbilisi, fino a quelli di Tunisi e del Cairo e, di conseguenza, di molte delle azioni rivoltose di piazza che, oltre a molti innegabili successi, in alcuni casi hanno avuto tragici risvolti e sono state trasformate in stragi da eserciti sanguinari o da mercenari.
Uno di questi casi fu il terribile episodio che ebbe luogo a Vilnius, in Lituania, il 13 gennaio 1991; una sparatoria sulla folla che causò 14 morti e della quale fu accusato l’esercito russo. In riferimento al tragico evento, il nome di Sharp fu successivamente menzionato in un’intervista rilasciata da Audrius Butkevičius, capo della sicurezza della capitale lituana, poi diventato ministro della difesa, alla rivista “Obzor” nel 2000 (poi ripubblicata dal giornale lituano “Pensioner”): “Lo dico apertamente – dichiarò Butkevičius –: Sì, io ho organizzato tutto ciò. Avevo lavorato per lungo tempo nell’Istituto Einstein, con il professor Gene Sharp, che si occupava di quella che allora si chiamava difesa civile. Cioè di guerra psicologica. Sì, io pianificai come mettere l’esercito sovietico in una posizione psicologica tale che ogni ufficiale avrebbe dovuto vergognarsi di farne parte”.
Alla lotta psicologica di Sharp però si ispirano anche iniziative come quella del serbo Srdja Popovic, fondatore di Canvas, Centro per la resistenza nonviolenta di Belgrado, un’ong nata nel 2003 per addestrare i rivoluzionari del presente. Popovic, 40 anni, figlio di due giornalisti liberali, laureato in biologia e cresciuto ascoltando rock e discorsi politici, ha letto il manuale del politologo americano prima di incontrarlo di persona a Budapest nel 2000, tanto che i suoi primi passi verso la “lotta nonviolenta” risalgono al 1998, quando creò il movimento studentesco di protesta civile, Otpor! (Resistenza), per sconfiggere il regime di Slobodan Milosevic, allora Presidente autoritario della Repubblica Federale Jugoslava (Serbia e Montenegro). Il simbolo scelto per Otpor! era un pugno chiuso stilizzato su uno sfondo nero ed è proprio quest’icona che ancora oggi fa il giro del mondo e rende riconoscibile il ruolo di Canvas nelle recenti rivoluzioni.
La scuola diretta da Popovic, situata in uno degli scialbi palazzoni dell’anonima zona nuova di Belgrado, al di là del ponte Brankov, è stata frequentata finora da migliaia di giovani provenienti da oltre 45 Paesi. Molti altri si sono formati grazie al manuale Lotta nonviolenta. 50 punti cruciali, scaricabile gratuitamente da internet in sei lingue (anche in arabo e in farsi) o seguendo i workshop all’estero. “Esempi di movimenti civili di successo ispiratisi ai nostri metodi ci sono stati in Georgia (rivoluzione delle rose, 2003, nda), in Ucraina (rivoluzione arancione, 2004, nda), in Libano (rivoluzione dei cedri, 2006, nda), nelle Maldive (2008), ma anche in Venezuela, in Tunisia (rivoluzione dei gelsomini, 2011, nda), in Egitto e in Kenya” racconta Popovic. “I nostri libri sono letti a Cuba e in Iran e i workshop richiesti in Zimbabwe, in Birmania, in Nigeria. Non esiste una formula universale. Ogni movimento, nato sempre fuori dal mainstream, personalizza le tattiche al contesto sociale del suo Paese, mantenendo vivi i tre principi fondamentali: unità del gruppo, pianificazione e disciplina nonviolenta”.
Per molti anni Canvas era nota solo negli ambienti giovanili dei Paesi sotto dittatura. Con le rivoluzioni arabe e la messa in onda del documentario “Egypt: seeds of change”, realizzato da Al Jazeera, Canvas è “uscita allo scoperto”, come sottolinea lo stesso Popovic, considerato “uno degli architetti della primavera araba”. Questa definizione, però, a lui non piace. “Se il nostro metodo ha aiutato i popoli arabi ne siamo orgogliosi, ma non rivendichiamo crediti su nessuna rivoluzione” sottolinea. Eppure ci sono molti attivisti che, rammaricandosi della violenza che ancora dilaga nei Paesi della primavera araba e del rischio di islamizzazione che alcuni di questi corrono, ancora lo ringraziano, come l’egiziano del movimento 6aprile, Mohamed Adel, che ha raccontato di aver frequentato Canvas nel 2009 e di aver portato materiali ai compagni al Cairo per prepararli alla rivolta.
I corsi durano 7 giorni e le classi sono formate da 20 alunni. Popovic è spesso accompagnato da altri trainer. Quando parla della sua scuola s’infervora e si mostra più interessato al bene comune che al successo personale. Veste in jeans e scarpe da ginnastica. Considera giacca e cravatta “una forma di schiavitù” e, tra i suoi modelli, elenca Gandhi, Mandela, Martin Luther King, Lech Walesa, e ancora, oltre a Sharp, Harvey Milk, Aung San Suu Kyi e Howard Zinn. A questi aggiunge tre passioni: Tolkien, l’autore de Il signore degli anelli, la rockstar Milan Mladenovic e il politico Zoran Djindjic, primo ministro serbo nel 2003, anno in cui fu assassinato. Popovic ha sempre considerato Djindjic un visionario, tant’è che nel suo breve passato in politica nel partito liberaldemocratico (è stato membro del Parlamento a 23 anni) accettò da lui un incarico come consigliere sulle questioni ambientali della città. Poi ha lasciato tutto per Canvas che opera “senza ricevere fondi da governi e fondazioni”.
Qualcuno, però, maligna che sia ricoperta di dollari da Washington e che funga da sostegno ai servizi segreti americani, tesi sostenuta anche nel volume Rivoluzioni spa (AlpineStudio) del giornalista Alfredo Macchi, un libro che offre molti spunti che secondo alcuni indurrebbero a pensare che dietro le rivoluzioni arabe ci siano gli Stati Uniti. Diplomaticamente, invece, Popovic preferisce parlare dei suoi sogni. Immagina la Serbia nel futuro come un Paese democratico all’interno della Comunità Europea. “Sono ottimista e orgoglioso del cammino che abbiamo fatto finora, superando il brutto capitolo degli anni novanta” dice, “viviamo in Paese libero, eleggiamo governi con elezioni eque e democratiche e la nostra informazione non è censurata”.
Spostando, dunque, lo sguardo sull’Europa e sull’Occidente, sottolinea: “mentre i Paesi sotto dittatura lottano contro la paura, gli occidentali lottano contro l’apatia, ma anche nelle loro democrazie possono essere efficaci le azioni non-violente per avviare cambiamenti. C’è un elemento comune tra Otpor! e i movimenti contemporanei, dalla primavera araba alle proteste italiane, spagnole e greche, fino a Occupy Wall Street di New York: essere gruppi di politici outsider e gente ai margini della società. Ovviamente, questo dato è legato anche al fallimento delle istituzioni politiche esistenti, partiti e sindacati. Ma è delle istituzioni politiche esistenti, partiti e sindacati. Ma è significativo che i movimenti citati stiano cercando di conquistare uno spazio abbandonato dalla classe politica, non per motivi ideologici e politici, ma per salvaguardare la propria dignità e per ottenere una maggiore giustizia sociale”.
Reset – 30 gennaio 2013
https://www.reset.it/reset-doc/serbia-la-scuola-delle-rivoluzioni-di-srdja-popovic