Yasmina Reza nei suoi libri non idealizza, né sminuisce l’uomo, piuttosto ne esibisce l’impotenza. Drammaturga e scrittrice francese, figlia di padre iraniano e madre ungherese entrambi di origine ebraica, è nota per opere come “Arte”, “Felici i felici” e “Il dio del massacro” da cui Roman Polanski ha tratto il film “Carnage”. In questi giorni è in Italia per presentare il nuovo romanzo, “Serge” (Adelphi, traduzione di Daniela Salomoni), in cui porta il lettore a fare un viaggio turistico ad Auschwitz insieme ai componenti della famiglia Popper. A Napoli ne parla domani alle 18 con Paolo di Paolo a Palazzo Grenoble.  

Yasmina, qual è stata la molla che l’ha spinta a scrivere “Serge”?

“Volevo scrivere un libro sul turismo di massa, così ho cercato un luogo dove collocare i personaggi. Non volevo che fosse una situazione turistica piacevole, al contrario cercavo un luogo terribile. Poi è venuta l’idea dei fratelli. Dico così per rispondere alla domanda, ma non è la verità. La verità è che non si sa come si compone un libro. Si scrive una frase e il resto segue”. 

Al centro della storia c’è la vita di una famiglia. Per lei cosa rappresenta la famiglia?

“La mia famiglia era speciale, non riconducibile ad alcuno schema convenzionale, e la sorpresa della vita è stata che una famiglia che avrebbe potuto disperdersi, è rimasta unita. Con i miei fratelli – due sorelle e un fratello -, ho legami stretti. Facciamo viaggi insieme. Forse anche per questo mi è venuta voglia di scrivere una storia che parla di tre fratelli”. 

Quanto la sua provenienza multiculturale ha condizionato la sua scrittura e la sua visione del mondo? 

“Penso che sia stato fondamentale nella scrittura, innanzitutto per la lingua. Casa nostra era frequentata da amici e parenti che avevano migrato in tutto il mondo e non parlavano bene nessuna lingua. Si parlava una lingua ellittica. Questo mondo di parlare male mi ha donato un francese originale che ho ereditato insieme a un certo orecchio per espressioni diverse dal consueto, frasi senza verbo, scorciatoie linguistiche. La lingua mi ha formato come persona. Appartenere a una famiglia di esiliati e di apolidi, mi ha dato una leggerezza contraria allo spirito attuale in cui si sente una pressione ad avere radici. Io mi sento apolide. Non mi lamento di non avere radici”. 

Vuole dire che avere più radici è come non averne? 

“Le radici sono un luogo, una religione, un paese. Io non ce l’ho”. 

E la Francia cosa rappresenta per lei?

“La lingua”. 

Il suo senso dell’umorismo, dunque, proviene dalla leggerezza del suo sentirsi senza radici?

“È un fatto culturale. Ho sentito i miei genitori ridere con i loro amici delle catastrofi. Ho sempre saputo che la risata è salvatrice. Questa consapevolezza è diventata una forma mentis”. 

Nel suo modo di raccontare anche un luogo come Auschwitz può diventare leggero. Aveva questa intenzione?

“Io volevo scrivere davvero del turismo. Mi sembra che ciò che si crede di trovare in questi luoghi, non si possa trovare. Il campo di sterminio non esiste più. Ne esiste solo l’idea. Non ho mai cercato di far ridere su Auschwitz, ma la distorsione tra la sacralità di un luogo teatro di una grande tragedia e le piccole beghe quotidiane dei visitatori, è tale che può far ridere”. 

Quanto volte è stata ad Auschwitz? Ne è stata delusa? 

“Due volte per scrivere il libro. Non sono stata delusa perché sapevo cosa avrei trovato. Non mi aspettavo niente, ho sempre saputo che le ingiunzioni alla memoria non sono altro che punture per mettere in pace la coscienza”. 

Nel libro la mamma dei protagonisti è affascinata da Putin. 

“Ho visto il calendario di cui parlo. Si vedeva Putin con un leopardo e in ogni mese era con un animale diverso. Aveva sempre gli occhi molto tristi. Ho sempre pensato che dal punto di vista romanzesco Putin fosse un personaggio interessante”. 

In che senso?

“Contrariamente ai governanti democratici che si basano sulla seduzione, il presidente Macron per primo, Putin non fa leva sulla seduzione e questo gli conferisce un’aura misteriosa che, sempre dal punto di vista romanzesco, non politico, lo rende una figura interessante. I dittatori non devono far leva sulla seduzione o porsi con il tipo di comunicazione attuale perché non hanno bisogno di essere rieletti ogni cinque minuti”.

La guerra in Ucraina?

“Non ho molto da dire. Non ho competenza in materia e non mi sento legittimata a esprimermi. Il mio parere non ha alcun interesse”.

Le ha fatto cambiare idea su Putin?

“Al contrario, il personaggio – sempre dal punto di vista romanzesco – è ancora più interessante e questo è l’unico punto di vista con il quale lo approccio. Dostoevskij lo avrebbe adorato come personaggio romanzesco”.

La scrittura è pericolosa? 

“Sì, c’è un lato da indovino in chi scrive”. 

Lo scrittore è un chiaroveggente o è la parola che crea il mondo?

“Non si sa. Quando scrivo ci sono cose che vorrei scrivere ma che non scrivo perché ho paura, proprio per l’aspetto premonitore della scrittura. Non è censura. Ho paura per me stessa, non vorrei creare dei mostri con la scrittura. È una cosa personale”.  

In questi giorni turbolenti ha voglia di scrivere?

“Mi pare che il mondo sia sempre più illeggibile a causa della rapidità dell’evoluzione tecnologica, della rivoluzione di internet, del ritorno delle guerre e delle sue conseguenze, del riscaldamento climatico. Tutto questo forma una nuvola grigia, una cappa di piombo che per uno scrittore si concretizza nel problema di trovare uno spazio. Tutto è troppo grande, rapido, pesante. È difficile trovare questo angolino in cui avventurarsi, ma quando ci riesco sono contenta, significa che ho toccato una piccola cosa di questa contemporaneità difficile da raggiungere”.  

Il Mattino, 17 marzo 2022